Recensione: Aeronautics
I Masterplan cavalcano l’onda del successo ottenuto con l’omonimo debut, che aveva fatto risorgere dalle ceneri il power metal teutonico di classe, alimentando i sogni dei fan, inebriati al pensiero di una possibile rinascita dei gloriosi Helloween.
In effetti Uli Kusch e Roland Grapow avevano davvero colto nel segno, scrivendo una serie micidiale di brani killer, e affidandosi alla mastodontica voce di Jorn Lande, la stella più brillante nel firmamento delle voci metal degli ultimi dieci anni, a detta di chi scrive.
Viste le premesse, dunque, era lecito attendersi che questo Aeronautics non dovesse distaccarsi troppo dal suo predecessore. E così è, in effetti: i due ex Helloween non osano, e forti della collaborazione in fase di songwriting degli altri membri della band (oltre a Lande, il tastierista Axel Mackenrott e il bassista Jan S. Eckert) e di due vecchi “filibustieri” come Roy Z e il produttore Andy Sneap (già con Nevermore, Kreator e Testament) ripropongono i modernismi già ascoltati in Masterplan, che donano ancora linfa vitale a composizioni fresche e vincenti, sebbene non esattamente originali per quanto riguarda strutture e linee portanti.
Ecco allora che come era accaduto con “Spirit Never Die” l’incipit è affidato a una song d’impatto, dall’elevata cantabilità come “Crimson Rider”, mentre come era stato per “Enlighten Me”, tocca a “Back For My Life”, singolo apripista, occupare il secondo posto in tracklist. E ancora una volta, si tratta di un mid-tempo molto radiofonico.
Segue “Wounds”, che ripropone l’abusatissimo 12/8 helloweeniano, allegro e trascinante, e che conduce alla prima vera perla dell’album, “I’m Not Afraid”, dall’originale aggressività, messa in risalto da un Lande superlativo. Arrivano quindi tre brani à la Masterplan, ovvero tre pezzi che non seguono definitivamente un filone power-metal, ma piuttosto rappresentano il sound personale della band, anche se questo va ancora inquadrato nell’indice di gradimento del sottoscritto: “Headbangers Ballroom”, “After This War” e “Into The Arena” mescolano l’aggressività dei riff alla modernità degli intermezzi tastieristici, alle vocals cangianti in stile Ark, per tre brani decisamente camaleontici, ma ben lontani dal progressive auspicato da Lande in fase di registrazione.
Torna il mid-tempo con “Dark For The Dying”, tutta incentrata su cambi di tempo e sul cantato fuori standard di Jorn. Ma è con “Falling Sparrow”, riprendendo il discorso interrotto con “I’m Not Afraid”, che i nostri riescono ad esprimere tutte la maturità compositiva accumulata negli anni, che si traduce nell’essere riusciti ad estrapolare quanto di vincente ci fosse nelle idee dei primi due “Keeper Of The Seven Keys”, ed abbandonare ogni banalità relativa a ritornelli facili e già sentiti. Capolavoro.
Naturalmente anche i nostalgici avranno la loro fetta di torta, forse la più grossa, con “Black In The Burn”, e i suoi nove minuti di revival helloweeniano, sempre – s’intende – da prendersi con tutte le attenuanti del caso, visto che i Masterplan non saranno mai i cloni delle zucche d’Amburgo, sia in senso (pro)positivo sia, per fortuna, negativo.
In conclusione, un sequel che ha saputo ribadire quanto di buono e originale era stato fatto con Masterplan, e che consolida un sound sempre più personale e identificativo, cosa fondamentale perché non si cada nel dimenticatoio. Se, tuttavia, vi attendevate uno stravolgimento nel programma di Kusch e Grapow, beh, fareste meglio a tornare sui vostri passi.
Tracklist:
- Crimson Rider
- Back For My Life
- Wounds
- I’m Not Afraid
- Headbangers Ballroom
- After This War
- Into The Arena
- Dark From The Dying
- Falling Sparrow
- Black In The Burn
