Recensione: Aetas Ascensus
A due anni dal debutto Blessed By The Light Of A Thousand Stars, i tedeschi Servant tornano a calcare la propria visione musicale, un black metal solidissimo e costruito sulle basi di un songwriting arricchito dalla padronanza degli strumenti del quartetto di Hannover capitanato da Farago (voce e chitarra). Sulla scheda informativa che accompagna il promo è ben evidenziato che Aetas Ascensus faràa la gioia di chi ascolta Dimmu Borgir, Immortal e Gorgoroth, ma in realtà ci si trova di fronte ad un sound ben definito e che non attinge necessariamente dal trittico sacro norvegese, citato principalmente per definire un sottogenere che gode di elementi old school, quanto di aperture più melodiche, piacevolmente accompagnate da tappeti atmosferici che avvalorano una produzione capace di rendere giustizia ad ogni singolo strumento chiamato in causa.
Lo schema compositivo dei Servant, un aspetto che può apparire di poco conto quando si parla di un genere sorprendentemente emozionale come il black metal, è qualcosa che intrinsecamente va a permettere un’ottima differenziazione dei brani, i quali si susseguono l’uno dopo l’altro, forti di ritmiche veloci e acuti vocalizzi affilati che in parte richiamano i primi Immortal, ma che l’attimo successivo esaltano l’intenzione precisa di rendere questo secondo capitolo molto personale. Consideriamolo come un black metal grezzo e ruvido – esattamente come dovrebbe essere – che però viene reso ancora più compatto da un’ottima produzione e dalla chiara idea di scrivere nove brani che non sanno di riempitivo, tantomeno di one-take.
Aetas Ascensus si presenta quindi come un lavoro incredibilmente maturo e dannatamente piacevole. A tratti – in maniera mai troppo marcata – si respira un tipico sentore di Scandinavian Metal (sul confine con il death più spinto) e le ritmiche più veloci si susseguono dando vita ad un disco capace di entrarti in testa sin dal primo ascolto, facendoti dimenticare gli schemi imposti al black metal e che troppo spesso relegano certe (nuove) realtà su binari che non conoscono deviazioni e che per forza di cose rischiano di ripetersi dopo il primo quarto d’ora di ascolto. Non è questo il caso dei Servant, senza dubbio una delle più interessanti realtà in ambito estremo. Ok, ma è memorabile? Non allarghiamoci troppo. Resta comunque un notevole seguito al suo predecessore e un importante tassello per una band che potrebbe dire qualcosa di molto importante se dovesse continuare senza schemi imposti. Questo e la bontà compositiva di Aetas Ascensus lo si percepisce soprattutto nei due brani più lunghi (che si avvicinano ai 10 minuti ciascuno) – Mater Hominis e Seven Sins To End The World – episodi che spiccano per qualità ed efficacia, incastrandosi bene con il resto dell’album, maggiormente incentrato sulla violenza tipicamente black che ci si aspetterebbe da una copertina così inequivocabile.