Recensione: Against The Winds
Interlocutorio.
Un momento ed un disco stavolta semplicemente “interlocutori” per Deen Castronovo ed i suoi Revolution Saints.
Il valore della prestigiosa band americana lo conosciamo tutti. Eccellenze assortite raccolte attorno all’altare del rock melodico che dal 2015 hanno proposto una serie di album solitamente di grande qualità ed ispirazione.
I Journey come stella polare imperitura, buon gusto ed eleganza gli ingredienti di una realtà abbozzata come semplice passatempo, poi divenuta nel concreto un gruppo consolidato e definito.
Tutti elementi che in qualche modo si riverberano e sono riconoscibili anche nel nuovo “Against the Winds”, quinto capitolo discografico che arriva nei nostri lettori a distanza di un anno esatto dal predecessore “Eagle Flight“.
Ci viene da supporre che, tuttavia, sia proprio questo lasso di tempo tanto ravvicinato, il motivo di un cd meno efficace del solito e con esiti inferiori rispetto a quanto siamo stati abituati sin qui.
L’idea, dopo ripetuti ascolti, è che solo una manciata di brani colpiscano realmente nel segno, lasciando nella gran parte della scaletta un alone di “riempitivo” che si trascina su armonie talora un po’ stereotipate.
Quasi come se, a forza di arare un campo e seminarlo di continuo, la terra, pur producendo frutti discreti, stia iniziando a dare qualche segno di inaridimento.
“Against the Winds” presenta due apici decisi e degni del nome che reca in copertina. La title track d’apertura, sontuoso melodic rock di scuola Journey e la conclusiva “No Turning Back”, pezzo che nelle atmosfere ricorda i magnifici Strangeways.
In mezzo a questo “testa-coda”, moltissimo mestiere, qualche buon ritornello ma anche sprazzi di stanchezza e ripetitività. Se, infatti, lo smulinare imperioso della scattanti “Will I See You Again” e “Been Said and Done” sono tali da garantire soddisfazioni, le stiracchiate “Show me Your Lights”, “Save all that Remains”, “Changing My Mind” e “Fall on my Knees” denotano qualche segno di staticità in un songwriting che tende a specchiarsi in soluzioni già ascoltate molto (troppo) spesso.
Del profilo tecnico e del valore dei singoli nemmeno val la pena di parlare. Castronovo prosegue la propria carriera tra le voci migliori del genere, Hoekstra è il chitarrista hard rock perfetto, Pilson una certezza e Del Vecchio il solito prezzemolo di qualità.
Manca però nel complesso, quell’atmosfera che ha reso grandi i loro dischi sino a qui, portandoci in dote un album indubbiamente “solido” ma, alle nostre orecchie, meno ispirato e “fresco” del solito.