Recensione: Age Of Ascendancy
Tamerlano fu un grandissimo condottiero turco che nacque nell attuale Uzbekistan nell anno 1336 fondatore dell’Impero timuride, protagonista in Asia Centrale e nella Persia orientale tra il 1370 e il 1407. Alla fine della sua vita il suo impero aveva un’estensione immensa, dal Volga e dalle attuali Turchia e Siria incluse, fino ai confini della Cina, comprendendo tutta l’Asia centrale, la Persia e l’India. Fu un vero e proprio genio dell’arte militare, oltre che uno spietato distruttore delle civiltà urbane che gli si opposero: le campagne più micidiali le intraprese contro stati musulmani e fu un raffinato protettore di letterati, uomini di scienza e artisti, nonché il costruttore di splendidi edifici che ancora oggi possiamo ammirare in varie località dell Asia centrale, tra cui Samarcanda e Kesh.
Nonostante gli indizi forniti dal monicker e dalla copertina di questo album d’esordio portino a pensare ad origini asiatico/mediterranee, potrebbe stupire il fatto che i Tamerlan Empire provengano da Sydney, prima di scoprire che il fondatore della band ha effettivamente origini uzbeke.
La band si è quindi formata nel 2011 per volontà del tentacolare drummer Khan (che blasterà per quasi tutta la durata del lavoro in maniera devastante e ineccepibile) con l’ idea di proporre un black metal influenzato dalla musica tradizionale del suo paese d’ origine, con l’esordio discografico che risale al demo Isfahan’s Fall nel 2016.
Dopo svariati ascolti dobbiamo dire che la mossa dei nostri istrionici signori incappucciati (l’outfit della band è davvero bello e professionale, così come le foto promozionali che accompagnano il disco) pare davvero azzeccata.
Premendo il tasto play si viene così avvolti dal colore rossastro delle sabbie e dai fumi di incenso che ci fanno immergere in un vero e proprio bazar, tra venditori ambulanti di spezie, bancarelle di tappeti persiani, scimmiette che saltellano tra le mura di mattoni di fango a difesa del reale palazzo del sultano Jafar e, se ci sforziamo, riusciamo a vedere pure la meravigliosa Jasmine affacciata dalla terrazza in attesa del suo amato Aladdin.
Questa però non è una storia d’ amore come il famoso film della Walt Disney, bensì il debut album di questi quattro tuareg australiani che sono più incazzati che mai, con la prima vera e propria canzone, Battle of Tyrants, che mette subito le cose in chiaro: dal bel mezzo del bazar dove ci trovavamo pochi secondi prima, adesso siamo nel cuore di una guerra efferata, dove il blast inferocito di Khan e lo scream lacerante del vocalist Ifrit si intrecciano alle magnifiche tastiere di Vizier, tessendo trame eteree e mai scontate, regalando una canzone bellissima e feroce dove degna di nota è anche la produzione.
Per tutto l’ album riusciremo ad apprezzare la qualità tecnico/strumentale dei ragazzi, con suoni puliti e taglienti come delle scimitarre e saif, accompagnati da tastiere mai eccessive che creano un costante tappeto di base.
Con la seguente Vengeance in Blood si pensa a un mid tempo per far rifiatare l’ ascoltatore, ma è solo la quiete prima della tempesta in quanto il blast prima e la doppia cassa dopo galoppano come un dromedario che ha preso anfetamine alternando, nel corpo centrale del brano stesso, passaggi atmosferici nei quali strumenti tradizionali fanno da padroni incontrastati.
Ottoman’s Demise parla della Battaglia di Ancyra, dove i Timuridi vinsero nettamente e durante la quale Bayezid I, che era a capo dei Turchi Ottomani, fu catturato: la traccia è bellissima, il riff iniziale, marziale, dà una maggiore enfasi alle sensazioni che può trasmettere una battaglia cosi cruenta mettendo, ancora una volta, strumenti tradizionali in assoluto rilievo, cosa comune che funge da collante tra tutti i pezzi del disco.
Non c’è mai mai un attimo di pace lungo tutte le undici tracce che compongono questo raffinato lavoro di metallo oscuro; infatti, gli inserti di musica etnica, le tastiere e i passaggi di chitarra più melodici servono solo per dare un minimo di pace all’ascoltatore, quasi a fargli credere che ci sia una tregua tra una battaglia e l’ altra, per poi rinvestirlo con una furia spietata che sfinirebbe pure un keniano in una maratona.
Nelle liriche non si parla solo delle battaglie e conquiste dell’ imperatore turco, ma anche del suo lato più oscuro e della sua mente da vero stratega di guerra che venivano riversate su nemici e alleati con sfrenata crudeltà; sottolineando, però, anche il grande interesse e il contributo del “Signore supremo” alla scienza, alla politica, all’architettura, all’astronomia e alla letteratura durante il suo regno.
Siamo al cospetto di quattro musicisti con le idee ben chiare e che pestano a dovere, con precisione chirurgica e grande rabbia, senza inventare nulla di nuovo; potrebbero ricordarci i Melechesh più arrabbiati o, per atmosfere e utilizzo di strumenti etnici, i primi Orphaned Land, ma rendendo ogni pezzo del lotto un vero e proprio viaggio tra dune di sabbia, duelli all’ultimo sangue e incroci di sguardi tra belle signorine dagli occhi di ambra avvolte in una coltre di incenso.
E’ l imponente Scattered Sands a chiudere un ascolto che lascia senza forze ma allo stesso tempo del tutto appagante: non deve stupire, quindi, la voglia di premere ancora una volta il tasto play e ripartire per un’altra avventura con questi grandi Tamerlan Empire e il loro bellissimo debut album Age of Ascendancy.