Recensione: Age of Steam
I Terra Atlantica sono un giovane quartetto tedesco, nato nel 2014 con l’obiettivo di suonare un power metal vicino a Edguy e Rhapsody of Fire e giunto, con “Age of Steam” (introdotto da una copertina a mio giudizio favolosa) al secondo lavoro discografico. La saga di Atlantide già toccata nel debutto “A City Once Divine” prosegue in questo secondo capitolo ambientando la storia nel diciannovesimo secolo, in piena Rivoluzione Industriale. La mitica città è tornata esibendo tecnologie decisamente avanzate che si fanno promotrici del salto in avanti tecnologico: l’Impero Britannico si sente minacciato e, naturalmente, cerca di eliminare il sopraggiunto rivale per tenersi il dominio dei mari. Ricapitoliamo: XIX secolo, immaginario visivamente steampunk, ritorno di Atlantide con tecnologia di svariate generazioni più avanzata rispetto ai suoi contendenti; non so voi, ma a me questo concept fa pensare subito al Mistero della Pietra Azzurra, e tutto ciò non può che intrigarmi.
Spostandoci agli aspetti prettamente musicali abbiamo per le mani un metallo che, come scritto in apertura, pesca a piene mani dall’opera dei nostrani Rhapsody e dalle creature di Tobias Sammet, ma in cui di tanto in tanto si sentono anche echi degli ultimi Atlas Pain e di certo pirate metal. Altrimenti detto: power enfatico e dal retrogusto cinematografico, in cui orchestrazioni maestose e cori imponenti occupano una posizione di preminenza, il tutto condito da una buona dose di cafonaggine e riff heavy rock. Il risultato è un album compatto e dal mood tipicamente tedesco, ben suonato e con tutti gli ingredienti dosati a dovere, uguale a mille altri e che non sgarra di un millimetro dalla rotta impostata anni or sono dai gruppi di riferimento del quartetto alemanno.
Dopo l’intro marinaresca d’ordinanza, a metà strada tra un prologo narrato e la colonna sonora di un film dei Pirati disneyani, si parte con “Across the Sea of Time”, classica opener debordante dai toni propositivi e trionfali dominata da ritmi agili, cori poderosi e melodie accattivanti. “Mermaids Isle” insinua nella ricetta ampie dosi di melodia e rallenta per dar vita ad una marcia melodica dall’afflato anthemico e zuccheroso, garantito anche dalla voce femminile e dall’intermezzo di piano prima del finale. La title track parte con piglio diretto, eroico, e assumendo un taglio maideniano, brava a rallentare nei punti giusti per pompare il tasso di arroganza sonora grazie al sostegno di orchestrazioni precise e non invadenti. “The Treachery of Mortheon” prosegue su questa strada innalzando il tasso di enfasi drammatica del pezzo, indurendo un tantino anche il comparto strumentale con riff più decisi, dal sapore quasi Helloweeniano, e un cantato leggermente più acido senza rinunciare però alla possanza delle orchestrazioni. Niente male anche la sezione strumentale che apre la seconda metà del pezzo. Quello che davvero ammazza la traccia è l’intervento di voce simil operistica che compare in un paio di occasioni, una sorta di Christopher Lee dei poveri appiccicata lì senza un senso logico che spezza completamente la tensione del brano. Peccato. Un percussionismo tribale apre “Forces of the Oceans Unite!”, marcia dal retrogusto piratesco in cui i nostri prodi alemanni mettono alla prova gli argini della tracotanza musicale con un ritornello che riecheggia certi Turisas e che raggiunge il suo climax nella seconda parte. La tracotanza non si ferma, e con l’arrembante “Quest Into the Sky” i nostri fondono power metal, folk est–europeo e fiammate sinfoniche degne dei Bal Sagoth dei tempi che furono, confezionando una traccia dai picchi molto coinvolgenti. Un arpeggio malinconico introduce la ballata “Believe in the Dawn”, che si distende su tempi languidi e linee melodiche cariche di pathos ma che, a parte un fugace quanto stentoreo intermezzo sinfonico, non si discosta di molto dalla tipica ballatona power che trovate tutti alla pagina 46 del vostro libro di testo. “Gates of the Netherrealm” torna al trionfalismo incombente miscelando riff secchi, cori imponenti e un andamento ritmato e marziale. L’intermezzo che apre la seconda metà del pezzo torna a profumare di Turisas, per poi aprire a una breve sezione dal sapor mediorientale e tornare, giusto in tempo per il finale, alla maestosità dei cori. Un’apertura sinfonica impattante apre “Rage of the Atlantic War”, che poi si disimpegna ricorrendo a riff hard–rockeggianti. La canzone ritorna più volte a dispensare una certa grandeur sinfonica rivelando il suo sapore Rhapsodyano, ma non esita a stemperarlo se le necessità narrative lo richiedono, come durante il breve intermezzo centrale dai toni languidi e rilassati che apre, poi, a un duello vocale tra voce pulita e growl. Chiude l’album “Until the Morning Sun Appears”, introdotta da toni dal profumo di film anni ’50 che cedono rapidamente il passo ad un piano malinconico che detta la melodia portante del pezzo. La canzone parte lenta, arrivando addirittura a riecheggiare vagamente un Bowie d’annata prima di guadagnare corpo con l’ingresso degli strumenti elettrici; a questo punto si trasforma in una cavalcata maestosa ed enfatica che, però, non mi ha convinto del tutto per colpa di un andamento fin troppo ruffiano e un ritornello a mio avviso poco incisivo.
In definitiva, “Age of Steam” è sicuramente un buon disco: piacevole, molto ben suonato ed ottimamente confezionato, scorrevole e senza sbavature, che ha nella parte centrale il suo punto di forza ma – probabilmente a causa della giovane età dei componenti del gruppo – difetta a mio avviso della personalità e dell’incisività necessarie per non farsi inghiottire dall’immenso calderone del power metal attuale.