Recensione: Agents of Fortune

Di Abbadon - 10 Marzo 2004 - 0:00
Agents of Fortune
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Anno: 1976
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84

Sicuramente annoverabili come una delle più importanti band di Hard Rock di scuola americana per quanto riguarda gli anni ‘70, i Blue Oyster Cult arrivano al quinto disco della loro carriera. Non sto qui a fare una carrellata di nozioni storiche sul combo (casomai in separata sede), bisogna però dire che i cultisti di Blue Oyster (c’è chi dice che il nome derivi da un poema, altre leggende vogliono che nasca dalla birra Blue Oyster in quanto i due loghi, di gruppo e birra, si assomigliavano molto) si erano contraddistinti, soprattutto agli inizi della loro carriera, per essere una specie di “volto oscuro” dell’Hard Rock, con atmosfere cupe, space e alla X-files, che di sicuro non lasciavano indifferenti gli ascoltatori. Poi si cambiò, e la band si mise a suonare un rock più leggero, spensierato nel sound (e preciso nel sound) ed abbordabile, che incrementò definitivamente il loro successo (tra l’altro meritatamente, perché l’inizio di questo cambio di tendenza corrisponde alcune tra le migliori prove dei BOC stessi). Attenzione però, non bisogna pensare che sia una band venduta perché, seppur cambiati gli accompagnamenti musicali, le atmosfere perverse e occulte continuavano ad aleggiare tra le note delle canzoni, alcune di esse destinate davvero a lasciare il segno. Ora flash back e ritorno alle primissime righe della rece. Come ho già detto, “Agents of Fortune” è il quinto disco della carriera del combo di Eric Bloom (voce), “Buck Dharma” Donald Roeser (chitarra), Allen Lanier (tastiere), Albert Bouchard (batteria) e Joe Bouchard (basso), ed esce a seguito del bel doppio live “On your feet on your knees”, nell’anno Domini 1976. Sonoricamente, ripeto da sopra, siamo su lande molto più abbordabili rispetto agli “orrori” (non in senso negativo, ma riferendoci ai concepts) dei primi tre dischi, che vedevano un hard rock alla Cream con sfumature che sarebbero state ispiratrici anch’esse del nostro metallo pesante. E’ importante vedere i numerosi autori delle song, in sede compositiva perchè quasi mai due pezzi sono della stessa combinazione di autori (cosa tipica dei Cult, ma a pochissimi altri, in questi anni). Sempre presenti densi aloni di pessimismo, mistero e misticismi, accompagnati però in modo estremamente melodico. Melodie che peraltro sono in gran parte eccellenti, complesse e dotate del potere di far perdere l’ascoltatore nei meandri di questo prodotto. Vediamo dunque di perderci. L’inizio è affidato alla breve ma decisa “This Ain’t the Summer of Love”, che lascia subito spiazzati per l’estrema diversificazione delle sue trame. Se infatti il riff è duro (fate le proporzioni con l’anno), con una voce cruda ad accompagnarlo, il refrain presenta un coretto e un sound piuttosto goliardico (una sorta di trallallà che però non fa ridere se si leggono i testi, anzi), che però è bello da sentire e non rovina assolutamente la track. Poca roba l’assolo, ma buon tratto centrale che differenzia il pezzo. Tutto questo avviene in poco più di due minuti, che sfociano in “True Confessions”, che in alcuni tratti mi ricorda il sound del primo Freddy Mercury solista. Breve anch’essa, dalla musica leggerissima, dedicata appunto ad un’ampia gamma di gente, allegra, spensierata, distante dal mondo dei BoC. Vabbè vediamola come simpatico sipario per la terza traccia, questa sì uno dei massimi capolavori del quintetto. Sto parlando della magistrale “(Don’t Fear) The Reaper” uscita anche come spettacolare singolo. Qui si rasenta davvero la perfezione, sia per quanto riguarda il sound, molto aperto è vero, ma che dà comunque una sensazione di profonda inquietitudine, sia per la voce, suadente ma che non trasmette troppa fiducia. Sono da segnalare la splendida chitarra portante (sorretta dalle keyborads di un buonissimo Lanier) e come già detto la voce suadente, impostata benissimo ed altrettanto ben sorretta da delle ottime backing vocals. Decisamente inaspettata la parte centrale, costituita da uno splendido solo, che dire inquietante è poco, 5 stelle (come mi piace ultimamente dire). Ritornando in tema space, veniamo supportati dalla discreta “E.T.I. (Extra Terrestrial Intelligence)”, che ritorna in parte, anche musicalmente, al passato. Infatti ETI, in sede strofe, fa molto richiamo al filone del rock di fine anni sessanta. Abbiamo ancora una netta separazione col ritornello, fatto apposta per essere cantato in coro. In evidenza un ottimo basso, che supporta alla grande il ritmo, ma nel complesso forse la peggiore delle songs che abbiamo sentito finora. Si torna ad altissimi livelli col secondo capolavoro, denominato “The Revenge of Vera Gemini”. Una voce femminile introduce ancora un gran basso, colmo di atmosfera, trascinatore di questo mid tempo molto ben scandito e di notevole caratura. Decisamente buona l’interazione tra la voce di Bloom e quella femminile (se non sbaglio è di Patti Smith, duetto che intavola una specie di dialogo, piacevole da ascoltare), così come è ottima l’orchestrazione del tastierista sullo sfondo. Mitico l’attacco a “Sinful Love”, una combinazione chitarra/piano che lascia davvero senza fiato per l’effetto melodico creato. Le parole sono ben scandite, e in seguito il brano diventa un alternarsi tra questa sequenza melodica e parti più graffianti. Curiose le voci di fondo, stranissime spiazzanti, ma non male. Nel pieno corso del disco, alla settima posizione, arriva quella che fu anch’essa nel singolo legato ad Agents, “Tattoo Vampire”. Che se devo dirla tutta mi piace ma non del tutto. Mi spiego : la canzone è valida, potente, miscela bene cattiveria, pirotecnica e psichedelia, ha un riff con sonorità decisamente più Heavy che Hard, però in altre parti alcune accortezze avrebbero reso il brano ancora più esplosivo. Sono inoltre stranito di fronte ad alcuni effetti (che devono incrementare la fantascienza della song) che potevano essere meglio realizzati. Altri però sono buoni e fanno da contraltare, quindi ecco il mio giudizio a metà. Nessun giudizio incompleto invece per “Morning Final”, ma solo ammirazione di fronte alle sue note. L’intro è maestosa e sembra preannunciare un lento, cosa che però poi non si verifica. Presente invece un bell’andante, non carico di tecnica ma che rapisce l’attenzione con la sua melodia. Non stupisce più l’ennesimo refrain in coro, sempre eccelsa la 6 corde nei tratti a lei elusivamente dedicati. Uno stridere di freni ci porta nel cuore di “Tenderloin”, mid tempo che non mi dice molto ma che non manca nei punti nevralgici degli ingredienti necessari (leggi buoni effetti sonori)a tenere attaccati alla canzone. Nulla in confronto alla closer “Debbie Denise”, terzo vero capolavoro del disco e forse quello più lontano dai canoni che la band lanciò quasi 10 anni prima. Semiballad melodicissima e fondata sulla chitarra classica Debbie Denise non macherà nè di intenerire i cuori più gentili, nè di incidersi negli stessi cuori, coi suoi aggraziati passaggi, i suoi cori e la sua dolcezza. Strano ma vero. Mentre questo capitolo della saga si chiude, resta solo da dire che Agents è un disco da sentire almeno qualche volta per capirlo bene. Molti dicono che sia il capolavoro del gruppo (è il loro disco che più è rimasto nelle charts), io dico di no in quanto preferisco, a livello studio, il precedente “Secret Treaties” e il successivo “Spectres”, non posso però negare che questo lavoro merita non poco, e non solo per le lucenti gemme che contiene.

Riccardo “Abbadon” Mezzera

Tracklist :

1) This ain’t the summer of Love

2) True Confessions

3) (Don’t Fear) The Reaper

4) E.T.I. (Extra Terrestrial Intelligence)

5) The Revenge of Vera Gemini

6) Sinful Love

7) Tattoo Vampire

8) Morning Final

9) Tenderloin

10) Debbie Denise

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