Recensione: Agma
Dopo aver festeggiato il trentesimo anno di carriera grazie al full-length “Tales of Madness”, con il nuovo arrivato “Agma” i maestri svedesi del metallo della morte Wombbath compiono un notevole step evolutivo nell’elaborazione dell’old school death metal. “Agma”, il quale, con i suoi settantadue minuti di durata e le sue sedici tracce, mostra sin da subito di essere differente dalla media del genere.
Maestri? Sì, poiché sino dalla loro nascita, avvenuta nel 1990 in quel di Sala, essi hanno sempre saputo restare ancorati a uno stile che, moderno all’epoca, piano piano ha assunto sempre più il significato di vecchia scuola. Ovviamente. Ma nemmeno troppo. Poiché la fedeltà ai propri stilemi natii non è cosa da tutti i giorni, quando molti colleghi d’infanzia hanno abbandonato la via maestra per divergere in altri percorsi che hanno portato e portano a una maggiore visibilità. E allora, se si vuole nominare qualcuno che sia un esempio concreto e vitale dell’old school death metal, non si può che citarli a gran voce, assieme a pochi altri.
Il tutto nonostante un decennio circa di inattività e lo stravolgimento totale della line-up, tant’è che della formazione originaria è presente, oggi, soltanto il chitarrista Håkan Stuvemark. Il quale, per non disperdere il suo patrimonio artistico, si è contornato, a partire dal 2014, di musicisti di grande esperienza e spessore. Sia tecnico sia, soprattutto, artistico. Che, con la naturalezza propria dei migliori, hanno saputo riprendere e far rivivere lo stile di una band che era ormai diventata solo leggenda. Non solo rivivere ma, come più su accennato, progredire lungo una strada che sia sempre quella dell’old school ma integrata da forti elementi di contorno che, usualmente, sono scevri da tale foggia musicale.
Il sound di base è quello, non ci sono dubbi. Sennò, non si parlerebbe più di vecchia scuola, rinvenibile soprattutto nell’enorme lavoro svolto dalle sei corde; impegnate nella costruzione di un’ossatura titanica con quel suono tipicamente zanzaroso, ma nemmeno troppo, di un riffing senza confini. Anche la sezione ritmica aiuta i Nostri a emettere un flavour che non ha uguali, assieme al growling rabbioso di Jonny Pettersson, evidente nei caratteristici quattro-quarti che danno l’idea di un colossale trascinamento di cadaveri in decomposizione.
Proprio da qui, tuttavia, nascono le peculiarità che, messe assieme fra loro e il tutto, connotano una nuova stirpe di death metal. Jonny Pettersson, il drummer, spesso e volentieri scatena bordate micidiali di blast-beats al calor bianco unitamente a pattern non lineari, che danno per primi l’idea di un’avvenuta progressione stilistica. Oltre a ciò, occorre sottolineare l’introduzione del violino di Thomas von Wachenfeldt, come accade per esempio nella visionaria ‘The Age of Death’, in cui il gusto arcano misto a bocconate di ragnatele formano un blocco devastante per le mascelle. Teoricamente antitetico al cospicuo innesto della melodia, a vece in parecchi istanti di rilevante importanza in un sound geneticamente privo di armonia.
Quasi si fosse voluto lasciare il meglio nella parte centrale del disco, ‘Oh Fire of Hate’ è un’altra canzone che si distacca dal trito e ritrito grazie a un incedere per nulla scontato e prevedibile. Rallentamenti, fulminanti accelerazioni, intrecci chitarristici dal mood tetro e oscuro segnano profondamente il disco stesso, attraversandolo da cima a fondo con potenti echi d’inaspettato rinnovamento. Per citarne una ancora, ‘In Decay They Shall All Fester’ presenta un incipit quasi grotesque, per dipanarsi, poi, come le spire di un pitone, adatte a stritolare le carni e frantumare le ossa. E la melodia? Ancora… e i blast-beats? Ancora… a significare una successione di brani non prevedibili a priori. Terminato l’ascolto di uno, è tanta la voglia di cominciare con l’altro, giacché – per com’è concepito il platter – non è dato di conoscere quel che si troverà di fonte. Esattamente quello che accade in precedenza con l’innovativa ‘Divine Pain’, in cui lo stile del combo scandinavo assume la forma di tentacolari azzardi sonori, per non parlare delle orchestrazioni (sic!) di ‘The Dead and the Dying’. Giusto per elencare altri esempio non esaustivi ma che si limitano per lasciare un po’ di alone di mistero attorno all’opera.
Evoluzione. Progressione. “Agma”. Wombbath.
Daniele “dani66” D’Adamo