Recensione: Aimin’ For Oblivion
Torniamo a Roma, per trattare ancora una volta di sonorità oscure e decadenti. Non è affatto una coincidenza: si può dire che la scena capitolina abbia dato origine a una vera e propria scuola di doom (death) metal, un’ondata nata anni fa e cresciuta nel tempo in termini numerici e di maturità. All’inizio degli anni ’90 i precursori furono sicuramente i Catacomb (poi evolutisi nei meravigliosi Novembre), ma anche i meno noti Sepolcrum (che, partiti come emuli di My Dying Bride e Tiamat, si trasformarono nei più aggressivi VII Arcano), sviluppando quel caratteristico “spleen” metallico romano, arrivato fino ai giorni nostri: numerosi act continuano infatti a portare avanti questi suoni e queste atmosfere, basti pensare a Doomraiser, The Foreshadowing, Shores Of Null, Raspail, Rome In Monochrome e molti altri.
In un contesto così florido, ritornano gli Invernoir dopo l’EP “Mourn” del 2018 e il full-length “The Void And The Unbearable Loss” del 2020 – entrambi convincenti, per la cronaca – con il loro secondo album, “Aimin’ For Oblivion”, edito da Code 666 Records (sub-label di Aural Music).
Caratterizzato da un impattante artwork e da una produzione di alto livello, l’album si sviluppa attorno alle classiche sonorità doom-death metal, debitrici della scena britannica dei primi anni ’90 (la sacra triade Anathema, Paradise Lost e My Dying Bride), ma poi evolutesi e diffusesi in tutto il mondo. Gli Invernoir partono da queste basi, rispettando con devozione certe soluzioni tradizionali, ma enfatizzando le peculiarità del genere, estremizzandole in un certo senso. L’intensità delle parti melodiche è resa ancora più incisiva, i momenti pesanti quasi brutali, e il senso generale di decadenza ancor più opprimente. Oltre a questo parossismo, colpisce la capacità del gruppo guidato da Alessandro Sforza (Ars Onirica ed ex Veil Of Conspiracy, tra gli altri) di rispettare tutti i canoni del genere senza riscriverne le regole, eppure di esprimere comunque personalità e sostanza.
Prendiamo il primo singolo, “Desperate Days”: è un piccolo compendio di doom death metal, con l’arpeggio iniziale di chitarra, l’alternanza tra voce pulita e scream, la linea melodica di sottofondo ripetitiva, il refrain martellante e il riffing che richiama i primi Anathema. Nulla di veramente nuovo, eppure tutto maledettamente azzeccato, ogni tassello è al suo posto. Questo è il fil rouge di “Aimin’ For Oblivion”: ogni elemento è curato, inserito al momento giusto, confezionato a dovere, al punto che per l’appassionato del genere (ma non solo) è impossibile non rimanerne impressionato.
Questo approccio costante emerge fin dalla opener “Shadow Slave”, che mostra una dicotomia tra pacatezza e potenza, un dualismo perfettamente armonizzato, grazie alla scelta dei suoni – sia puliti che distorti – e alla voce di Alessandro, che padroneggia con destrezza i due stili vocali opposti. Questo filo conduttore prosegue con “Doomed”, che presenta un break centrale apprezzabile e preparatorio a un crescendo meraviglioso che culmina in un lungo assolo finale. La lunghezza dei pezzi, tipica del genere, non ne compromette l’efficacia; al contrario, “Aimin’ For Oblivion” risulta tutto sommato di facile assimilazione, grazie a un lavoro di arrangiamento intelligente e puntato all’essenzialità, che permette a ciascun passaggio di trovare la propria definizione. “Forgotten In Time” ne è un esempio, con un ritornello in pulito che riporta Alessandro sugli scudi.
Ascoltando con attenzione si colgono rimandi ai grandi del genere, come “Broken” che richiama l’old school di Anathema, oppure “Few Minutes”, tra My Dying Bride e Swallow The Sun. “Unworthy” si distingue per una linea vocale quasi darkwave, con ritmiche tra Paradise Lost e Type O Negative, che aggiungono una marcata componente gothic. L’album si chiude con “Useless”, scelto come secondo singolo, caratterizzato da una parte del testo recitata in Italiano e che poi si sviluppa in chiave quasi funeral doom.
Pur ricalcando schemi consolidati, “Aimin’ For Oblivion” è una masterclass di musica pensata, composta e suonata a regola d’arte. Visti i presupposti, non sorprende che gli Invernoir abbiano realizzato un album così bello, dove è difficile trovare difetti evidenti. Le prossime mosse della band romana saranno cruciali per affermarsi nella scena doom internazionale, come già avvenuto per altre formazioni della Capitale.
Vittorio Cafiero