Recensione: Al Azif

Di Marco Migliorelli - 5 Giugno 2012 - 0:00
Al Azif
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Anno: 2012
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80

Evocano nomi, nomi dall’eco potente, abitatrice dell’immaginario di moltitudini.
Nomi strappati al pantheon di un maestro della “letteratura del sogno”, evocano le canzoni dei The Great Old Ones.
Devoti a Lovecraft, nel nome e nel titolo del loro debut, s’addentrano nella follia visionaria, nella sciarada metaletteraria del primo sacerdote di Cthulhu.
Sei lunghi brani a comporre un disco che è difficilmente definibile d’esordio. Appellativo ingeneroso, abito stretto sebbene, e sia chiaro, non privo di nobiltà quello di debut.
Ladlo Productions concede fiducia e mezzi ad un progetto musicale solido, interessante e credo apprezzabile anche dai più smaliziati. Un piacere sottile per chi ha dedicato ore importanti ed occhi basiti alla lettura di Lovecraft. Un piacere che proprio agli occhi si comunicherà prima ancora di far vorticare il disco, per merito della bellissima copertina a cura del chitarrista e cantante Jeff Grimal, autore anche di una prova vocale eccellente, perfettamente in accordo con gli intenti del concept.

È scritto che i grandi antichi non esistono fra gli spazi ma fra gli spazi vanno muovendosi.
Ebbene, parafrasando il verbo misterico che protegge e scaglia in una atemporalità mitica il Necronomicon e le sue visioni, mi è dato dall’ascolto il potere di adattare quanto riportato anche alla musica dei TGOO. Il gruppo francese si muove con passione e ispirazione fra gli spazi del black metal tanto senza lasciarsi irretire dal rischio di stereotipia in cui si può finire incespicando con l’accostarsi pienamente a questo tipo di tematiche, quanto senza permettere alle loro idee di essere, conformemente alla natura di un esordio, troppo vincolate, timorose e capaci di promettere mancando in realizzazione; al contrario: Al Azif si muove nella musica con quella sicurezza propria di chi ha interiorizzato le proprie visioni facendone complessa ispirazione e di là della pura silente inconfessabile singolarità.

Musicalmente ci si potrebbe attendere complessivamente un’architettura emotiva oscura, sulfurea, incentrata sul terrore e sull’ignoto; c’è molto d’altro. Ad una assenza (non mancanza, deve esser chiaro) di reale sperimentazione corrisponde un pieno, vasto, tentacolare spettro di soluzioni emotive che dall’ignoto partono per giungere, scavalcando le angustie della prevedibilità, ad una esperienza emotiva fatta di riverberi come in “The Truth” dal finale in percussioni e chitarra solenne abissale;o di imprevedibilità, perché no, sfrondando la cappa suboceanica degli imperscrutabili cromatismi di R’lyeh con un solo di chitarra, in “Rue d’Auseil” che potrebbe lasciare inizialmente quantomeno interdetti (ma Rue d’Auseil stupisce anche per altro, ad esempio per quel suo principiante tocco di violino, agli antipodi della sua  conclusione…).
Jonas” è il brano più sfuggente invece, forse il più lento nei canoni di un qualche afflato “doom”, va precisato, perché di momenti di più tensiva lentezza vive anche il resto del disco (in questo forse ha ben ragione chi ha parlato degli ormai “noti” Wolves in the Throne Room, per quanto il paragone resti a mio avviso sempre un poco azzardato!).
Collocato in terza battuta nell’economia del disco, “Jonas” tributa più di quanto meriterebbe come brano a sé, il suo seguire due pezzi solenni e tirati. A risalire, “Visions of R’yleh”, quindi “Al Azif”, l’opener del disco. La prima loro canzone che chi scrive ascoltò, debitore del vecchio solido immarcescibile consiglio amicale, e tale da far breccia ed indurmi quindi, rapito, a scrivere a Gerald della Ladlo, con toni pieni di entusiasmo.
C’è un preciso momento, dopo l’introduzione del brano, che preconizza quella che è poi l’intera rabescata esperienza d’ascolto di questa opera prima. Voglio rimarcarlo perché è in grado da subito di mostrare, come mercante di oneste credenziali e remote provenienze, lo spessore delle atmosfere che questi musicisti francesi sono riusciti a ricreare rispettando, arte all’arte, le sfaccettature del verbo letterario quando sapientemente (mitopoieticamente) usato nella costruzione profonda e interiore di mondi. Dal minuto 2:35, mentre in superficie imperversa un titanico fortunale di batteria, dal fondo buoi dell’origine sale quello che in me almeno è il “tema degli abissi”.
Tema degli abissi è quel particolare sfondo sul quale successivamente si snoda tutto il disco.

Sitting on the edge of a dune, they dictate to me/ like wishpers of Jinns they force me to write

Doom e post black metal si alternano indistintamente; indistinti nell’ottica di un sound formato.
Chi cerca nel black una componente mistica ed evocativa lontana dai temi cari al genere degli esordi è qui che deve quantomeno sostare. Melodia e atmosfera sono le abusate parole chiave funzionalmente capaci di richiamare con istinto pratico ad un genere che ha dalla sua molti campioni e legioni di alfieri.
Se mi sono sforzato di non farne uso è per provare a mettere in luce ripeto, non tanto la carica innovativa della musica dei TGOO (è importante poi?) quanto la sincera, appassionata, personale ispirazione che non concede un solo minuto di calo al disco.

Molti e non solo i veterani sono ormai avvezzi alle ripartenze infurianti di batteria proprie di tanto black, anche di nuova generazione e decisamente in fase di allontanamento dai canoni di genere, eppure…eppure? Cos’è che ogni volta ci induce a cercar differenze e a determinare scelte qualitative? È quello che c’è intorno, quel che musicalmente contiene i passaggi più ferali e li adagia sul fondale secondo la geometria di nuovi imprevisti bagliori. Ecco allora cos’è il tema degli abissi in questo Al Azif. La capacità di arrivare in profondità e risalire, senza impazzire.

R’yleh, this is not your time
R’yleh, continue to dream minds
under the sign
of The Great Old ones

Così in Visions of R’yleh, il brano più veloce e con dal quinto minuto,per oltre un minuto, un passaggio da subito bellissimo con la chitarra, che introduce voce e batteria a martello, capace di riverberare in malinconia e velocità contemporaneamente. Arresto e ripresa nel sesto minuto  e quaranta secondi fino al termine. Quasi due minuti da dedicare ai più scettici per quello che si configura come un invito, che a voler convincere troppo si perde noi e la Materia in cui si crede.
Poi il mare, silenzio, Jonas. Metà disco e alla più veloce segue il brano più lento e come dicevamo righe sopra, sfuggente.

Questa è la punta dell’iceberg, quanto è sotto la superficie delle acque sarà esperienza dei più convinti. Quanto è sotto, ossia quanto resta di non detto di questo disco, può essere, Lovecraft insegna, il più grande dei continenti.

For that, I would dream again and again
For that, I would scream in the spirit of all men

Ascoltatelo.

Marco Migliorelli

Tracklist:
1.Al Azif
2.Visions of R’lyeh
3.Jonas
4.Rue d’Auseil
5.The Truth
6.My Love for the Stars (Cthulhu Fhtagn)

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