Recensione: Al Qassam
I multicolori retaggi nord africani e mediorientali si uniscono a volte nel metal, suggestioni che possono arrivare anche dall’Occidente, grazie all’apporto di musicisti indigeni. E’ il caso degli Acyl, Arkan e dei presenti Aeternam, guidati dal marocchino Achraf Loudiy. L’oriental metal band canadese dopo essere partita dall’acerbo “Disciple of the Unseen“(2010), aver attraversato lo schietto “Moongod”(2012) e le diversità multietniche di “Ruins of the Empires”(2017) giunge quest’anno ad “Al Qassam”, il quarto album.
Ciò che salta all’orecchio rispetto alle uscite precedenti è l’abbondante uso delle percussioni e dell’aspetto tribale, in grado di donare ulteriore diversità e compattezza. Questi elementi sembrano poi avere il compito – insieme al comparto acustico – di rischiarare un’aura dalla tendenza oscura, a volte mefistofelica e stregonesca.
A tal proposito la title-track (trad. arabo “il giuramento”) che presenta testi in arabo, è il pezzo che più di tutti manifesta un soffio magico. Ispirato da un vecchio grimoire di alchimia chiamato “Shams Al-Ma’Arif”, esso include l’invocazione di “Murrah Al-Abyad Abu Al-Harith”, perfettamente integrata in uno dei contesti più estremi ed affascinanti dell’opera.
Alquanto ipnotica è la maestosa “Ithyphallic Spirits of Procreation”, brano in cui il culto di Min, dio egizio della fertilità, si accompagna ad incantevoli ed intricate atmosfere terraneamente sensuali.
Eleganti arie minacciose unite a cori in latino rimarcano invece l’apocalittica sacralità di”Poena Universi”, splendida nella sua terremotante veemenza. Il pezzo più estremo è però ‘Ascension’, brano influenzato da un rito kabala. La grandissima tensione spirituale segue a più livelli una struttura di per sè alquanto diretta, sensazione accentuata da serratissime sfuriate dall’aria black.
In questo senso “Lunar Ceremony” è la traccia che -pur mantenendo un tosto spirito death melodico- possiede più punti di contatto con l’ex band di Roy Khan, sensazione accentuata dal canto eseguito interamente in pulito. Un pezzo davvero aggrazziato nelle melodie e nelle linee vocali che nell’apparente semplicità paiono evocare un’innocenza idealistica. Questo lo si può percepire particolarmente nell’eterea e splendente purezza di “Palmyra Scriptures”, la “ballad” del disco. Per certi versi simile a “Iram Of The Pillars” di “Moongod”, il brano ispirato a Septimia Zenobia (sovrana del terzo secolo del Regno di Palmira in Siria) ammalia per l’emozionante dialogare tra le voci pulite di Loudiy e dell’ospite Kobi Farhi (Orphaned Land).
“Hanan Pacha” (“Mondo Celeste” in lingua quechua) ispirata a Viracocha divinità nella mitologia Inca, sfoggia in un contesto esplosivo ed implacabile, brevi passaggi di percussioni e linee di flauto dall’aria sudamericana. In “Celestial Plains”, pezzo ispirato a Susanoo dio shinto dei temporali, le suggestioni estremo-orientali si coniugano poeticamente a ritmiche più distese ma colme di una reattività sorprendente.