Recensione: Albion
«A Neverending Story».
Così cantava Limahl nel lontano 1984, ai tempi dell’uscita del celebre adattamento cinematografico del romanzo di Michael Ende, e così possiamo esprimerci noi, oggi, in merito ai Ten e al loro nuovo album, l’undicesimo da studio in 19 anni di carriera.
Una fiaba senza fine, si diceva, quella del gruppo inglese. Tornati, infatti, al pieno delle proprie possibilità dopo un paio d’album di transizione (“Return To Evermore” e “The Twilight Chronicles”), i Ten trovano nel nuovissimo “Albion”, il probabile culmine di una tripletta in crescendo inaugurata da “Stormwarning” e proseguita dal successivo “Heresy And Creed”. La ricetta è all’incirca la stessa di sempre, con quei brani a metà tra strada tra l’AOR più sfarzoso (e talora epicheggiante, un po ‘ à la Magnum) e il rock Led Zep – oriented di fine anni ’80, le linee vocali basse e sinuose e le atmosfere da sogno. Eppure Gary Hughes, coadiuvato dai fidi John Halliwell, Steve McKenna e Darrel Treece-Birch e con l’aiuto di due nuovi chitarristi (Dann Rosingana e Steve Grocott), continua ad incantare come ai tempi migliori, grazie alla forza di un’ispirazione che non viene (quasi) mai meno e che riesce a donare il tocco magico a composizioni al 100% di marca Ten.
L’ascolto scorre dunque spedito e coinvolgente sulle note di piccole grandi instant classic come “Alone In The Dark Tonight”, “Battlefield” e “It’s Alive”, senza dimenticare la consueta incursione nell’universo folk/celtico con la fiera “Albion Born” o l’immancabile ballata regina, nella fattispecie la Whitesnake-iana “Sometimes Love Takes The Long Way Home”. Non da meno, in ogni caso, il resto della tracklist, con la rutilante “A Smuggler’s Tale” e la faraonica “Die For Me” a far da contraltare alla più sbarazzina – ma riuscitissima – “It Ends This Day”, più che mai Ten-style e all’ipermelodica ballad “Gioco d’Amore”, con la quale il buon Gary Hughes si cimenta addirittura con l’italico idioma (con risultati che lasciamo commentare al singolo ascoltatore).
Chiude la movimentata “Wild Horses” e non poteva esserci finale migliore per l’ennesimo album di alto livello nell’ormai ventennale carriera della band albionica. Ancora un paio di gradini al di sotto delle migliori produzioni di casa Ten (personalmente “The Name Of The Rose” e “Babylon”) ma in leggero vantaggio sui precedenti due capitoli da studio; in due parole: una graditissima conferma.
Stefano Burini