Recensione: Alchemy
E’ ormai un vero e proprio luogo comune sostenere che i dischi di Malmsteen suonino tutti allo stesso modo. In realtà basta seguire con un minimo di attenzione la storia discografica dell’axeman scandinavo per individuare – nell’ambito di uno stile indubbiamente ben definito e coerente con se stesso – un’evoluzione, seppur discontinua e per balzi, scandita da alcuni fondamentali dischi di svolta. Alchemy è uno di questi.
Nel 1995 Magnum Opus aveva chiuso un’epoca, dando inizio a una fase di transizione che sarebbe durata tre anni. Prima con Inspiration, tributo retrospettivo di Yngwie ai suoi padri musicali, da Hendrix a Blackmore. Poi con Facing the Animal, disco per più d’un verso sui generis, che forse proprio per il quel carattere atipico aveva riscosso consensi anche tra gli abituali detrattori dello svedese. Infine col mastodontico Concerto Suite for Electric Guitar and Orchestra in E flat minor Opus#1, spettacolare tripudio del più egocentrico neoclassicismo malmsteeniano, trionfalmente riesumato dopo essere stato in apparenza relegato in secondo piano con il disco precedente.
In questo contesto, Alchemy è l’album che cambia tutto senza cambiare nulla. Non cambia nulla, perché il modo di suonare di Yngwie è sempre lo stesso – un irriducibile esilio volontario entro confini musicali rigidi e invalicabili. Cambia tutto, perché nell’intera discografia del guitar-hero scandinavo non si era mai sentito un disco così. Pesante, oscuro, con uno spiccato accento sinfonico, Alchemy segna il distacco pressoché totale da quelle cromature ottantiane che erano sopravvissute persino in Facing the Animal. Rispetto a quest’ultimo, più che una correzione di tiro, Yngwie opera una drastica inversione di rotta. Lo stesso Mats Olausson – sopravvissuto insieme a Barry Dunaway alla precedente line-up – orienta le sue tastiere verso una dimensione orchestrale, di gusto squisitamente classico. Una trasformazione radicale, rispecchiata dall’arrivo alle pelli di John Macaluso – protagonista nello stesso anno del debutto in grande stile degli Ark – il cui drumming potente e versatile si rivelerà determinante per il sound dell’album.
Ma l’innesto decisivo è quello al microfono. L’erede designato di Mats Leven è infatti niente di meno che Mark Boals. Il suo ritorno, dopo i fasti di Trilogy, sarà suggellato da una prova semplicemente sensazionale, che per ampi tratti finirà per mettere in ombra persino la prestazione del protagonista designato.
Yngwie Malmsteen: il primo atto resta comunque interamente suo. Quando si alza il sipario, al centro della scena si staglia subito la sua fida Stratocaster, che con le sue acrobatiche evoluzioni barocche riassume in poco più di quattro minuti tutte le ragioni che rendono lo svedese uno dei chitarristi più amati e odiati al mondo. E’ la rinascita in grande stile del neoclassicismo metallico, una rinascita chiamata Blitzkrieg.
Bisognerà aspettare la seconda traccia per trovare le prime tracce di concreto cambiamento. Un coro a cappella introduce il doveroso omaggio a uno dei più grandi geni – forse il più grande – che la storia in generale e il Rinascimento italiano in particolare abbiano mai conosciuto. Oscura, maestosa, gotica (nel senso storico del termine), Leonardo trova subito in prima fila un Boals in grande spolvero, che con la sua strepitosa interpretazione costringe Yngwie a dilatare in maniera spropositata i propri assoli per ricordare che, in fondo, si tratta pur sempre della sua band.
La ricetta non subisce troppe variazioni neanche in Playing with Fire, se non fosse che stavolta la qualità del songwriting non pare del tutto all’altezza. L’attacco bruciante è promettente, la strofa opprimente dà voce a un accattivante bridge che sembra promettere sfracelli, ma che finisce inspiegabilmente per sgonfiarsi, fiacco e ripetitivo, in un chorus del tutto privo di mordente. Ci pensa allora il solito Mark a togliere le castagne dal fuoco, salvando la partita con un paio di acuti di alta scuola. Sulla stessa linea d’onda può collocarsi anche The Stand, ispirata all’omonimo romanzo del maestro dell’orrore Stephen King, meglio noto dalle nostre parti col titolo “L’ombra dello scorpione”. E’ forse questa l’unico occasione in cui pare riemergere in superficie una punta di melodia ottantiana, per il resto travolta da un’ondata di potenza e neoclassicismi.
Abbiamo già masticato quattro tracce, e sta cominciando a rimanerci un po’ di amaro in bocca. Dopo un inizio incoraggiante, il disco si sta perdendo tra pezzi troppo incostanti e assoli eccessivamente prolissi, persino per gli standard di Yngwie. Manca ancora l’accelerazione decisiva, il pezzo veramente all’altezza del suo nome. Ma quel pezzo sta arrivando: il suo nome è Wield My Sword, travolgente cavalcata in pieno stile speed/power, non priva di una spiccata intonazione epica (“I will die for my king and my land / but I must die with my sword in my hand”). L’axeman vichingo azzecca tutto, dai riff agli assoli, mentre uno scatenato Mark Boals si lancia alla carica con un refrain in climax vertiginoso: nulla di nuovo e va bene così. Sono quesi otto minuti di fuoco e fiamme che passano in un lampo. Dopo tanta eccitazione c’è bisogno di tirare il fiato. La strumentale Blue non potrebbe capitare in un momento migliore, rilassando l’ascoltatore che le sue melodie pacate e, tutto sommato, meno barocche del previsto.
Siamo al giro di boa. Probabilmente non è del tutto appropriato parlare di sperimentazione, ma per gli standard malmsteeniani Legion of the Damned è quanto di più vicino possa pensarsi a un esperimento musicale. Il pezzo è introdotto da un drumming bellicoso e aggressivo, dominato da un riffing pesante e massiccio. Da una strofa piuttosto tirata prende vita un bridge marziale, per certi versi quasi thrash. Al punto che tutto ci si potrebbe aspettare, fuorché un simile ritornello, tanto limpido e solare da apparire perfino ingenuo nel suo ispirarsi alle spensierate sonorità del più scanzonato happy metal. Un episodio indubbiamente atipico, che susciterà le reazioni più diverse, ma che in ogni caso non passerà inosservato. Più lineare ma altrettanto controverso è anche il pezzo successivo, Demon Dance. Mark Boals impiega metà del ritornello per pronunciare il numero “settemilioniquattrocentocinquemilanovecentoventisei” – pari, stando al censimento malmsteeniano, al totale dei demoni attualmente residenti all’inferno – ma con quella voce potrebbe davvero dire qualsiasi cosa. Peccato soltanto che per il resto il brano si risolva in un up-tempo piuttosto lineare, sollevato da un refrain orecchiabile ma privo di spunti di particolare pregio.
Tutt’altra storia la seguente Hangar 81, Area 51. Siamo qui di fronte a un altro degli highlight neoclassici dell’album: un riffing oscuro, serrato, supportato dal martellamento incessante di un basso potente e vitale, prepara il terreno per il solito, puntualissimo Mark Boals. Comincia a essere noioso ripetersi, ma ancora una volta il singer statunitense non riesce a tenere nascosto il proprio talento, e fa tutto alla perfezione: strofa, ponte e chorus. Malmsteen ci aggiunge del suo indovinando uno degli assoli più esaltanti della giornata, e stavolta riesce anche a non dilungarsi oltre il necessario. Se i pezzi sull’album fossero tutti di questo livello, forse si starebbe parlando di capolavoro.
E invece sull’album ci sono anche pezzi come Voodoo Nights. Sicuramente una delle creazioni più tenebrose del virtuoso di Stoccolma, quasi sabbathiana nell’atmosfera, la penultima traccia di Alchemy ha il duplice difetto di trascinarsi stancamente per ben sette primi e mezzo, e dunque di affossare malamente il superlavoro di Macaluso alle pelli – tanto malamente che stavolta neanche Boals, per quanto armato di tutta la buona volontà del mondo, riesce a risollevarne le sorti.
A lasciare un buon ricordo ci pensa la suite strumentale Asylum – suddivisa nelle sue tre sezioni Asylum, Sky Euphoria e Quantum Leap. Via libera a tutti i barocchismi repressi di Yngwie (e dovevano essere parecchi), per la gioia degli estimatori del neoclassico e per la disperazione di chi ormai non ne può più. Ma questo è Malmsteen, e se siete arrivati ad ascoltare fino in fondo anche il suo dodicesimo album senza amarne lo stile significa che in fondo dovete essere un po’ masochisti.
In linea con l’appesantimento (fisico) del loro leader, anche i Rising Force escono da Alchemy più pesanti, più metallici. Gli album successivi continueranno a battere questa strada, con risultati altalenanti sul piano della qualità, ma soprattutto con grossi problemi per quel che riguarda la produzione (peraltro non impeccabile pure in questo caso).
Si dice talvolta che Malmsteen abbia da tempo finito le idee: forse in realtà tale valutazione è corretta solo in parte. Forse il problema è che, benché le buone idee non manchino, alle cattive idee è concesso fin troppo spazio per esprimersi, con il fatale risultato di trovarsi tra le mani dischi che avrebbero potuto diventare piccoli capolavori, ma che falliscono proprio per l’incostanza delle tracklist. E’ il caso di Alchemy, inesorabilmente rimpallato tra bassi spiacevolmente bassi e altri decisamente alti, sebbene talvolta (si legga: spesso) si tenda a dar maggior peso ai primi. Il bilancio finale è dunque ampiamente positivo, vero però è anche che, ripensando a quel che Yngwie ha fatto e a quel che avrebbe potuto fare, non si può reprimere un sofferto sospiro di rimpianto.
Tracklist:
1. Blitzkrieg
2. Leonardo
3. Playing with Fire
4. The Stand
5. Wield My Sword
6. Blue
7. Legion of the Damned
8. Demon Dance
9. Hangar 18, Area 51
10. Voodoo Nights
11. Asylum I: Asylum
12. Asylum II: Sky Euphoria
13. Asylum III: Quantum Leap