Recensione: Alchemy of Souls Part II

Di Germano "Jerry" Verì - 24 Ottobre 2021 - 0:01
Alchemy of Souls Part II
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2021
Nazione:
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78

Non cogliendoci certo di sorpresa con un secondo capitolo discografico dopo Alchemy of Souls, Pt. I, tornano gli iberici Lords of Black a distanza di solo un anno da tal predecessore.
Tornano con il loro power a tinte classic e prog, che poche modifiche ha conosciuto dall’esordio (l’omonimo del 2014) ai giorni nostri, dando un sequel al lavoro precedente già peraltro piuttosto apprezzato da addetti ai lavori e fan.

La loro idea è sempre stata quella di proporre un metal moderno che mettesse d’accordo melodia ed elementi progressivi. Ricetta forse non originale, ma maliziosa e sagace, senz’altro vincente (nel loro caso) se il risultato è la qualità dei lavori che la band ha saputo sfornare in questi anni.
Nello calcio si dice “squadra che vince non si cambia” ed ecco che al fianco del capitano chitarrista Tony Hernando resta confermato dietro il microfono il pluri-impegnato Ronnie Romero (Rainbow, The Ferrymen, ecc.), tanto per assicurarsi quella dose di talento che poi spesso fa la differenza. Anche a livello stilistico, per trovare differenze rispetto al primo capitolo, occorre andare sulle sfumature: questo Pt. II suona leggermente più cupo e oscuro rispetto al suo predecessore, non aggiungendo molto in termini di innovatività o evoluzione sonora.
L’album si apre con un’intro orchestrale piuttosto canonica, “Preludio (Alchimia Confessio 1458 d.C.)“, a sfumare classico ed elettrico e a lanciare con un minuto di crescendo “Maker Of Nothingness“, un midtempo muscolare dove ben presto la chitarra di Hernando assume il ruolo di assoluta protagonista. L’aggressività della voce di Romero fa il resto, infarcendo il brano di oscura negatività.
Il ritmo di fa più sostenuto con “What’s Become Of Us“, brano melodico in pieno stile power, giustamente scelto per presentare il disco. Orecchiabile, potente, con un Nunez che dimostra ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, che questa band ha un signor batterista: tecnica quando serve, sempre funzionale al brano e mai fuori posto.
Altro pezzo forte (anch’esso anticipato prima dell’uscita dell’album) è la successiva “Bound To You“, un brano il cui riff ricorda gli Evergrey (al netto di un certo Gothenburg sound) e del quale Romero interpreta come al solito egregiamente le varie sfumature.
Le nubi tornano ad addensarsi con “Before That Time Can Come“, brano cupo dove un pianoforte malinconico si fonde con il riffing pieno di groove di Hernando. La teatralità di Romero fa il resto.
Mind Killer” è un brano motivazionale nella sua malvagità, uno dei più massicci e quadrati, degno antipasto della veloce “Death Dealer“, brano di impostazione molto classica, con ritornello trascinante ed assoli implacabili.
Il lavoro in tutto il disco di Tony Hernando merita una sottolineatura: sempre pronto ad arricchire il brano confezionando linee melodiche accattivanti senza mai scadere in assoli stucchevoli che sanno di ginnastica musicale.
Introdotta da un basso drogato, non fa eccezione “Prayers Turned To Whispers“, altro pezzo catchy, perfetto substrato sul quale spalmare l’espressività di Romero.
Si muove su sonorità un po’ diverse e decisamente più prog “In A Different Light”: la bellezza del brano testimonia che, nel momento in cui la band scioglie le briglie della propria creatività e acquisisce coraggio nel songwriting, ha decisamente molto da offrire. La successiva “How Long Do I Have Now”, pur non abbassando il livello medio della canzoni, allunga il minutaggio e peggiora la digeribilità di un album che già di suo non gode di particolare mutevolezza, risultando ridondante.

Fated To Be Destroyed” trasforma la chitarra di Hernando in un’ascia da guerra pronta a sferrare quei colpi tanto cari ai fan del trash, con la voce di Romero che conquista nell’arpeggio centrale. Uno dei momenti migliori del disco, le cui atmosfere infernali non trovano soluzione di continuità con la successiva “No Hero Is Homeless“, altra mazzata poderosa dal ritornello coinvolgente. Tutta energia dal vivo che contiene un suggerimento: forse il songwriting dei Lords of Black dà il meglio di sé quando decidono di sputare fuoco e fiamme.
Chiude l’album la cover degli Uriah HeepSympathy“: anche in questa occasione, come in altre interpretazioni dei Lords of Black negli album passati, la loro versione rende assolutamente giustizia al brano scelto.

Quest’ultimo lavoro dei Lords of Black ci consegna in definitiva un’altra prova magistrale dei suoi due protagonisti, abilmente supportati da una sezione ritmica che non sbaglia un colpo. Assodate le indubbie ed enormi capacità tecniche, anche i detrattori irriducibili di Ronnie Romero (da tempo reo di scimmiottare R.J. Dio) non potranno non riconoscere una certa ricerca di nuove e variegate espressività vocali in questo lavoro. Tony Hernando si conferma chitarrista di grandissimo gusto, quando prende la scena sono sempre applausi.

Sempre nel calcio si dice che, quando mancano un po’ le idee di gioco, i campioni in squadra possono risolvere comunque la partita con una giocata, grazie alla loro classe e talento. Se da una parte i Lords of Black mancano un auspicabile salto di qualità dal punto di vista compositivo, dall’altra confermano la grande capacità di assemblare un prodotto musicale godibile, inattaccabile tecnicamente, ottimamente arrangiato e prodotto.
L’attesa di maggior coraggio da parte di Tony Hernando & soci sarà quanto mai piacevole, perché nel mentre potremo goderci questo ottimo Alchemy of Souls, Pt. II.

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