Recensione: Alien Architect
Alzi la mano chi, anche tra i cultori della ricerca di perle perdute nel mare dell’underground, aveva mai sentito parlare prima d’ora degli Another Lost Year. Pochi, forse nessuno – compreso il sottoscritto, NdR – eppure, alla luce di quanto emerso a seguito di un fortuito quanto fortunato ascolto del loro nuovo album dal titolo “Alien Architect” non è possibile far altro che constatare che la loro scarsa fama sia un vero peccato.
Già, perché i pur ignoti statunitensi non sono affatto degli sprovveduti – e nemmeno degli esordienti: “Alien Architect” è il loro secondo album cui vanno a sommarsi ben due EP – e lo dimostrano a suon di killer riff, refrain indovinati e assoli di gran gusto. Ingredienti in grado di far breccia nel cuore di tutti i modern rocker che vedono nella musica di gruppi come Alter Bridge, Shinedown, Black Stone Cherry e Theory Of A Deadman l’ideale trait d’union tra la tradizione melodica dei big 80’s e il fascino cupo e intimista dei 90’s.
Rispetto ai due EP precedenti, maggiormente improntati al cosiddetto post grunge, l’ultimo parto della band di Charlotte apre a soluzioni melodiche di ampio respiro lasciando la bella voce di Clint Cunanan – dal timbro non troppo distante da quello di Chris Robertson dei citati BSC – libera di svettare da par suo sul perfetto tappeto strumentale intessuto dalle chitarre dello stesso Cunanan e di Jorge Sotomarino e scandito dalla sezione ritmica composta da Nathan Walker e Adam Hall.
Ognuna delle canzoni proposte in scaletta, pur potendo essere genericamente inserita nel filone del «modern hard rock a tinte groovy» vive tuttavia di vita propria, spaziando dall’irresistibile carica hard di brani come le favolose “Wolves”, “Bastard Sons” e “We All Die Alone” – tutte e tre potenziali radio hit qualora adeguatamente “spinte” – fino al delicato gusto melodico di ballad come “Best Is Yet Come” o le più malinconiche, ma altrettanto se non più riuscite,“He Took The Beautiful Away” e “Memories”.
Nei brani più cupi e introversi la grandeur melodica viene al contrario accantonata per far posto a riff tesi e linee vocali magari meno immediate ma comunque di gran resa, come nel caso di “Trigger Finger” – molto Black Stone Cherry – della più groovy “Run the Tank Out” o della cantilenante “This Is Life”. Chiudono, infine e senza cali di tono, altri due pezzi da novanta come la vibrante “On And On” – caratterizzata da una linea vocale giocata su toni bassi e avvolgenti quasi à la Ten – e la conclusiva “Holding On (Lettin Go)”, dominata da atmosfere di marca Tremonti/Alter Bridge oltre che dall’ennesimo azzeccato guitar solo.
Che dire? Gli Another Lost Year non rivoluzioneranno certo il modo di concepire il modern hard rock tipico di questo decennio ma riescono nella non banale impresa di consegnarci un disco fresco, tagliente ed ispirato come non se ne dovrebbe mai avere abbastanza. Se vi par poco…
Stefano Burini
Note e curiosità
Il monologo sul quale è incentrata l’iniziale “Intro” è tratto dalla famosa serie “Newsroom” ed è pronunciato da Will McAvoy, anchorman televisivo interpretato nella fiction da Jeff Daniels; “Labirinto Mortale”, “Speed”, “Scemo & Più Scemo”, “The Martian”, tra i suoi film più noti (minuto 5:00 ca.).