Recensione: Alive in Color
I monumentali Redemption, in occasione dei vent’anni dalla loro formazione, rilasciano Alive In Color, doppio live (anche in formato DVD e Blu-ray) registrato nel corso del 2018, a testimonianza della loro impeccabile tecnica esecutiva e della fantasia compositiva che ha pochi eguali, oggigiorno, nel panorama progressive metal. Il loro cammino fu da subito tracciato dal leader Nicolas Van Dyk che, partendo da Los Angeles e attorniato da musicisti di livello, andò alla conquista dei principali palchi di tutto il mondo, dapprima come supporto di band leggendarie (e.g. Dream Theater), poi come headliner in festival quali il Progpower USA. Vennero poi album iconici quali The Fullness Of Time del 2005 o This Mortal Coil del 2011, dove inaspettate armonie si fondono con una sorta di potenza primordiale. Proprio brani tratti da queste uscite sono ripresi e registrati nel corso del loro tour di due anni fa, evento reso ancor più interessante dall’idea di farsi raggiungere sul palco (in alcune occasioni) da ex componenti e collaboratori come Ray Alder, Simone Mularoni e Chris Poland (ex Megadeth), a dar man forte ai già validissimi Vikram Shankar, Tom S. Englund (Evergrey), Sean Andrews e Chris Quirarte.
Intro ad effetto e via che si parte! “Noonday Devil” dal ritmo incalzante e ipnotizzante, riesce nel sempre difficile compito di rapire la folla con immediatezza e già dalla prima battuta. L’ugola d’acciaio di Englund ben si sposa con gli axemen presenti on-stage, che si scambiano idee e riff in un gioco delle parti che giova all’intero discorso. “The Suffocating Silence”, sopra l’urlo del pubblico, prosegue il discorso iniziato, con in aggiunta un raro gusto per la melodia. Il tappeto sonoro prodotto dalle tastiere di Shankar è come un cielo su cui i nostri possono proiettarsi per intraprendere voli in ogni dove, che diventano pindarici quando i tempi si fanno dispari. “The Echo Chamber” rappresenta un esempio lampante di quel che significa il made in U.S.A., perché è da là che questo genere è partito, prima underground, poi rivelatosi in tutta la sua bellezza agli ascoltatori dell’intero pianeta. Non una sbavatura, non un grammo d’imprecisione, sembra un disco registrato in studio, ma i ragazzi stanno suonando dal vivo! Tanta energia lascia senza fiato. “Damaged” rallenta leggermente lo show, perché giustamente non si può soltanto correre. Questa scelta di scaletta giova all’insieme, perché permette di carpire un’altra sfaccettatura delle scelte stilistiche del gruppo, che qui ha nell’invocazione il suo momento. “Someone Else’s Problem” è una vera botta adrenalinica, nonché perfetto esempio di come una canzone possa iniziare come un monolite per poi sfociare in un’eccelsa sezione melodica, pur sempre rafforzata dall’onnipresente e rocciosa sezione ritmica. “Little Men” è minacciosa, cupa a tratti, addensata da un grande incrocio di chitarre al fulmicotone, davvero enormi nel loro incedere. In pratica una cavalcata comandata dalla voce di Englund; lui chiama e il pubblico risponde con vero entusiasmo. Con i suoi dieci minuti di evoluzioni sonore e stilistiche che lasciano sorpresi, “Long Night’s Journey into Day” è una lezione di progressive metal con arpeggi, voci soffuse, calma, sì ma apparente. L’intento dei Redemption infatti è quello di render noti i canoni di questo genere e le sue potenzialità, ascoltarli è come accomodarsi nei primi posti delle più lunghe e strane e montagne russe ma viste. “Thread” parte in quarta con Mr. Alder come ospite a ricordarci che razza di cantante sia a tutt’oggi. Ritmo forsennato, mai un calo di tono, un crocevia di magnifiche soluzioni stilistiche. E gli spettatori di questo sabba musicale rispondono gridando il loro consenso, mentre gli officianti sono impegnati in una performance da brividi. “Black & White World” va a braccetto con il mistero, l’incipit iniziale ne è testimone, ma è il lavoro delle tastiere il vero fulcro di questo episodio, tant’è perfettamente centrato nel tema della canzone. Un poema di forza e coraggio sonoro. “Indulge in Color” vede l’ingresso di un grande Chris Poland, che con la sua ascia si inserisce alla perfezione, sebbene il suo suono sia meno incisivo di quello di Van Dyk. Nella parte centrale del pezzo il progressive scavalca il metal e si prende il suo applauso, nessuna nota stonata, solo questione di bilanciamento tra le parti.
“Peace Sells”, gustosa cover del brano dei Megadeth, serve più a Poland che ai Redemption i quali, pur con tutte le frecce al loro arco, hanno voluto fargli un bel regalo. “Walls” ha la freschezza di una boccata d’aria pura, dal punto di vista musicale, pur con un testo duro e di condanna. Se siete arrivati fin qui, vi sarete abituati alle invenzioni dei nostri, ai crocevia chitarristici calibrati e mai reciprocamente invadenti (chi è chitarrista può capirne lo sforzo, specialmente se il leader del gruppo suona questo strumento), al granitico incedere della band. “Threads” è una vera mitragliatrice, forsennata nell’avanzare e con una precisione invidiabile nel colpire i bersagli (ossia gli ascoltatori). Un pensiero va al tecnico del suono, il suo lavoro è ineccepibile. “The Fullness of Time, pt. 3”, posto in chiusura, ricorda da vicino certi passaggi di musica d’arte francese d’inizio Novecento, ma è solo un attimo, perché poi si torna ai Redemption in maniera netta. Sono fortissimamente loro, una vetta che altri devono scalare per poterne godere i vasti panorami. Questo gruppo ha conquistato la propria di montagna e in questo momento siede al fianco dei più grandi. Nient’altro d’aggiungere.