Recensione: All Hell Breaks Loose
In un music-business dove oramai l’appassionato è abituato a qualsiasi cosa (split e reunion, tributi su tributi, tour celebrativi a non finire, dvd, cofanetti ed amenità varie), impressiona quasi l’avere a che fare con i Black Star Riders. Per i più distratti, si tratta semplicemente del nuovo appellativo che Scott Gorham ha pensato di utilizzare per quella che è stata (o quasi) l’ultimissima incarnazione dei Thin Lizzy. Il Nostro, dimostrando quell’integrità che, appunto, è rara ai giorni nostri, ha valutato poco serio sfruttare il nome della band del compianto Phil Lynott per un nuovo lavoro in studio e, con l’energia di un ragazzino di soli 62 anni, si è buttato in questa nuova avventura forte dell’appoggio di un etichetta come la Nuclear Blast, solitamente dedita a sonorità più pesanti e alla moda. Già, perché qui si parla di hard rock genuino e vecchio stile, poco incline alla modernità e carico di riferimenti a quello che è il passato dei membri del gruppo. Ma partiamo proprio dalla line-up, completamente composta da cavalli di razza: abbiamo il “versatile” Ricky Warwick, frontman dei The Almighty (nonché ultimissimo vocalist dei Thin Lizzy) e tale aggettivo non va inteso in un senso esclusivamente positivo, specialmente perché il pur bravo Ricky è stato spesso accusato di un certo opportunismo a livello musicale, visti i veloci “cambi di casacca” della sua band storica, così repentini all’alternarsi delle mode; c’è poi alla chitarra Damon Johnson (Brother Cane, Alice Cooper, Thin Lizzy), il guascone Marco Mendoza al basso (anche lui negli ultimi Lizzy senza dimenticare Blue Murder, Ted Nugent e Whitesnake, tra gli altri); infine, oltre al già citato Scott Gorham, alla batteria prende posto Jimmy Degrasso (dai Megadeth a Ozzy Osbourne, da Lita Ford a Y&T, Suicidal Tendencies e Alice Cooper…). Insomma, un organigramma semplicemente stellare, messosi all’opera con la dovuta umiltà, per lanciare da zero (o quasi) un nuovo nome all’interno di una scena sempre più inflazionata. Saranno riusciti i Nostri nell’impresa? Senza perdere tempo con un’inutile suspense (comunque vanificata dal voto palese scritto in alto a sinistra), possiamo tranquillamente ammettere che si tratta di un lavoro soddisfacente e, se si dovesse utilizzare un termine per definirlo, chi scrive è convinto che “divertente” (termine banale quanto esplicativo) sarebbe l’aggettivo giusto.
All Hell Breaks Loose è, semplicemente, un lavoro di hard rock vero, che suona fresco pur avendo i piedi saldamente piantati nelle atmosfere del passato. Un passato che significa soprattutto Thin Lizzy, ai quali i Black Star Riders pagano un giusto tributo, senza cadere nel plagio totale. E, tutto sommato, si può dire che lo facciano fin dall’inizio dell’album, forse per chiudere il conto subito oppure, più probabilmente, per accattivarsi le simpatie degli ascoltatori (che chi scrive ritiene che si tratti, per la maggior parte, di appassionati della band di Dublino). Al di là delle dietrologie, pezzi come Bound For Glory e Kingdom Of The Lost sanno di Thin Lizzy dall’inizio alla fine: la prima, con il suo groove melodico e accattivante tipico dei migliori pezzi di Lynott & Co., la seconda con le sue atmosfere così dannatamente irlandesi, una sorta di folk-rock dove cornamuse e violini si fondono magnificamente con chitarre e chorus energici, per un pezzo che sembra un vero e proprio inno all’emigrazione irlandese del passato: probabilmente uno dei momenti più alti dell’intero lavoro. Pagato questo dazio, i nostri non cambiano pelle (il fantasma di Lynott sembra essere sempre presente con il suo sorriso sornione in tutto l’album), ma sembrano orientarsi verso un hard rock di ampio respiro; sembra proprio questo il punto di forza dei Black Star Riders: la capacità di farsi apprezzare pur non inventando nulla di nuovo, basandosi su un buon livello qualitativo delle composizioni e, soprattutto, sulla grande esperienza di base unita alla classe dei singoli, elementi che permettono di trasmettere feeling con estrema semplicità, caratteristica fondamentale nel rock and roll. Proseguendo nella tracklist, sia con l’energica Bloodshot (con i suoi break di vaga atmosfera aerosmithiana) che con l’ottantiana Kissin’ The Ground, i nostri mettono al centro i ritornelli, facilmente memorizzabili pur senza scadere quasi mai nella banalità. Discorso simile può essere fatto per la ritmata Hey Judas (scelta anche per l’indispensabile videoclip), che, dopo una breve introduzione quasi country, lascia il posto ad un rock gradevole, ottimo per essere rappresentato dal vivo. Passo falso, invece, con Hoodoo Voodoo, che, nonostante il buon lavoro in fase di riffing, tende a perdere mordente, soprattutto nel refrain non memorabile. Ma la delusione sparisce subito, perché la conclusione del cd è affidata ad una serie di pezzi davvero piacevoli e variegati, basti menzionare anche soltanto Valley Of The Stones, veloce ed robusta quanto basta per far capire che questi signori non si sono fermati ai gloriosi anni ’70 e la splendida Before The War, che dal titolo alle ritmiche marziali, dal lavoro di chitarra al cantato nervoso, non può non essere considerata un omaggio al compianto Gary Moore, altra stella andata via troppo presto e figura satellite attorno alla carriera di Phil Lynott e della sua band.
Chiusi in un certo senso i conti con il passato, troviamo un pugno di vecchie glorie per nulla desiderose di appendere gli strumenti al chiodo che, con grinta ed energia, non temono di tornare allo scoperto in un panorama affollatissimo. Ce n’era davvero bisogno? Considerando la passione e lo spirito che trasudano da questi pezzi, la risposta non può che essere affermativa. Era opportuno voltare una pagina, andando oltre a quella leggenda che si chiama Thin Lizzy. Scott Gorham e soci, con questo debutto tutt’altro che precoce, ci sono riusciti.
Vittorio “Vittorio” Cafiero
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