Recensione: All Is One
Prima di iniziare, facciamo un piccolo gioco. Pronti? Bene: pensate a una band che sia tanto geniale da creare un nuovo genere, magari unendo culture musicali lontanissime e apparentemente inconciliabili, dotata di un gusto compositivo fuori dal comune unito a capacità di arrangiamento e interpretazione uniche. Dopodiché, prendete un gruppo che tratti principalmente la pace tra popolazioni da secoli in conflitto, un tema che dovrebbe essere proprio delle religioni organizzate e dei governi, non certo di una rockstar. Quanti artisti vi sono venuti in mente? Pochi scommetto. Tra questi devono esserci ‘per forza’ gli Orphaned Land. Se poi vi avessi chiesto di dirmi il nome di una band metal oggetto di petizione affinché fosse nominata al Nobel per la pace, beh sarebbe stato troppo semplice. E a noi non piace vincere facile.
Orphaned Land ha tutte le caratteristiche summenzionate e in venti anni ha scritto musica di livello eccelso nella sua globalità, contando quindi non solo le sette note, ma anche il messaggio di fondo mirato giustappunto all’unificazione dei popoli mediorientali e i testi che lo esplicitano, oltretutto vantando una tecnica esecutiva sopraffina, sempre saggiamente messa al servizio del collettivo. Già, collettivo è il sostantivo ideale per gli israeliani, visto il contributo apportato non soltanto dai membri ‘regolari’ della formazione ma altresì dagli ospiti provenienti dalla cultura arabo-giudaica, determinanti per rendere i loro dischi cosi affascinanti e suggestivi; un ensemble fin ora protagonista di una carriera colma di onori che vede il suo apice in un disco epocale come “Mabool” (2004, che per il sottoscritto si attestava su oltre 90/100…).
Adesso, ‘Tutto è uno’. “All Is One”. Mai titolo fu più efficace per sintetizzare l’intero concept che muove un artista, nel caso specifico l’individuazione dei punti di unione, a discapito delle divisioni, che esistono tra i popoli mediorientali e le tre principali religioni monoteiste: Cristianesimo, Ebraismo, Islam. Tutti adoratori dello stesso, unico Dio, anche se per vie diverse. Tutti nati e viventi nella stessa terra. E tutti figli di Abramo. Messaggio palesato fin dalla copertina, tanto semplice quanto dannatamente efficace, che vede i simboli di queste religioni intersecati, a formare una sola effige. Simbolo di unità.
Musicalmente, “All Is One” contiene ciò che ha reso grandi gli Orphaned Land ma prosegue, anzi rafforza il ‘processo di semplificazione’già iniziato con il precedente “The Neverendig Way Of OR-Warrior” (2010). Diminuisce la fazione prettamente progressive della loro proposta e sparisce quasi del tutto quella death metal, mentre diventa preponderante il metal classico, melodico, talvolta hard rockeggiante, sempre perfettamente mischiato al folklore mediorientale. I pezzi sono più asciutti e di facile ascolto, nonostante l’impressionante mole di arrangiamenti e barocchismi tipica dei Nostri. Ciò che differenza Yossi Sassi e soci da tutti quegli artisti che negli anni hanno percorso un sentiero evolutivo simile, è che in questo caso non si perde un grammo di personalità e carisma, sperimentando un modo di proporsi più immediato ma ugualmente affascinante. E, se permettete, questo non è un risultato da poco! Per conseguire questo risultato, fondamentale è stato l’apporto di un’orchestra di oltre quaranta elementi, di un coro di venticinque voci e dell’ormai consueta sfilata di strumenti di Gaza: una babele di suoni e anche linguaggi, visto l’utilizzo del latino e dell’ebraico accanto al canonico inglese.
Note d’Arabia, battiti di mani e un imponente coro femminile ci accompagnano per mano nell’eponimo brano comprensivo di tutte le peculiarità dell’opera, tra cui la prestazione divina di Kobi, mai così espressivo, salmodiante ed eclettico, nonostante l’abbandono quasi totale del growl. Gli stessi passi sono seguiti dalla splendida “Simple Man”, perfetto connubio tra metal/rock e atmosfere mediorientali. “Brother” è il primo, autentico tuffo al cuore del disco e racconta la drammatica vicenda dei figli di Abramo, ovvero Isacco e Ismaele. Una lotta tra due fratelli poi diventata lotta tra due popoli. Con la successiva “Let The Truce Be Known” la faida si sposta ai giorni nostri e protagonisti sono di nuovo due bambini questa volta amici, uno palestinese (o comunque musulmano) l’altro ebreo, prima compagni di giochi, poi costretti a odiarsi. “Through Fire And Water”, “Shama Im” e “Ya Benaye” sono canzoni che si rifanno direttamente alla tradizione musicale della terra d’origine degli Orphaned Land, dove la componente elettrica ha perlopiù funzione di sostegno ritmico, mentre le stupende in “Fail” e “Our Own Messiah” riconosciamo due piccoli capolavori collegati al passato della band, con la prima più debitrice verso il death metal (ascoltiamo anche il growl) e la seconda più orientata verso il progressive data la struttura intricata del brano. “Freedom” è un’epifania strumentale di suoni e colori che ribadisce la felicità della scelta di nomi, un’ode alla libertà. Chiude quest’ennesimo trionfo della Terra Orfana “Children” e lo fa nel modo più poetico possibile. Archi e strumenti a corda di varia natura ci danno l’arrivederci, assumendo sempre il punto di vista dei bambini costretti a vivere una condizione indegna della loro innocenza.
Gli Orphaned Land si confermano una delle band migliori del nostro tempo, spero solo che con “All Is One” anche gli scettici possano finalmente ricredersi e tutti possano tributare loro il giusto riconoscimento.
Matteo Di Leo
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