Recensione: All Is Well In The Land Of The Living, But For The Rest Of Us… Lights Out

Di Germano "Jerry" Verì - 19 Luglio 2021 - 12:16
All Is Well In The Land Of The Living, But For The Rest Of Us… Lights Out
Band: Per Wiberg
Etichetta: Despotz Records
Genere: Progressive 
Anno: 2021
Nazione:
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62

Non ci sono dubbi che Per Wiberg sia un talentuoso polistrumentista e compositore, certamente poliedrico, tale da rendere vincolante l’attribuzione della sua proposta musicale solista ad un genere specifico.
Inizialmente noto al grande pubblico per le sue pregresse ed illustri partecipazioni (dagli Opeth agli Spiritual Beggars, passando per Candlemass e molti altri), ha definitivamente tolto le briglie alla sua vena creativa intraprendendo una propria carriera solista con l’album di debutto Head Without Eyes del 2019. Già con quell’esordio era chiara la necessità dell’artista svedese di uscire dai vincoli e dalle cornici che le band nelle quali aveva militato inevitabilmente ponevano al suo estro. Aperta la valvola di sfogo, la sua musica ha abbandonato confini e retaggi stilistici, fondendo prog rock, metal, space rock con tratti psichedelici e oscuri.
Dopo due anni ritorna nuovamente da solista con un EP che, pur vantando solo 24 minuti di durata, non lascia nell’ascoltatore quel senso di incompiutezza tipico, risultando organico e a suo modo definitivo, anche nel suo gioco di parole con la tracklist: All Is Well in the Land of the Living But for the Rest of Us… Lights Out.

Composto e suonato per intero da Per Wiberg con il solo contributo del batterista Tor Sjödén, si apre appunto con “All is Well”, brano atmosferico nel quale si miscelano tappeti di effetti sonori, arpeggi di chitarra acustica, un piano gentile e la voce filtrata di Wiberg. Il risultato è piuttosto oscuro, a tratti doom. Complice un approccio vocale piuttosto minimale, è possibile cogliere un’eco lontana di “Watersiana” memoria. Al primo ascolto potrebbe apparire come una lunga intro, ma, dopo aver ascoltato per intero il disco, appare più chiaro il suo posizionamento nell’economia del concept.
In the Land of Living” suona più fruibile, cadenzata e dritta, il riffing essenziale preserva le tinte dark dell’opener, ma l’insieme armonico e ritmico, seppur ben assemblato, non è servito all’ascoltatore da linee vocali che qui, necessariamente, dovrebbero dare ben altra luce e peso al pezzo. La necessità di Wiberg di doversi muovere vocalmente nei territori consoni a chi non è propriamente un cantante, è certamente un limite dell’intero lavoro.
La successiva “But for The Rest Of Us” è di sicuro la più spiazzante del piccolo lotto: esordisce con un piano spettrale su effetti, vocalizzi e percussioni sinistre, senza poi mai accendersi se non nella ritmica in crescendo della batteria. Un brano introspettivo e ansiogeno che poi però lascia l’ascoltatore in uno strano limbo interpretativo.
L’album si chiude (bene) con “Lights Out”, un brano di chiara ispirazione retrò, semplice, elettrico, lento e psichedelico con una chitarra avvolgente finalmente messa a sferzare l’aria, fino all’approdo.

Si chiude così un album che scorre anche rapidamente nel suo viaggio sonoro, ma che lascia alcuni dubbi sulla sua effettiva direzione. Se da una parte è evidente una certa ricerca musicale figlia ed ispirata dai contesti musicali frequentati da Wiberg, dall’altra non è chiaro quanto in là, con quanta indefinitezza e con quali rischi voglia muoversi questa esplorazione. La breve durata non sembra esserne responsabile: il lavoro riesce a conferire a suo modo un senso di completezza e non si ha la sensazione che ci siano idee nel cassetto pronte a completare un eventuale full length.
In definitiva si tratta di un album anche gradevole ma che non stupisce, ben messo a terra ma privo di quei lampi e di quelle idee che fanno la differenza fra una sperimentazione ordinaria e quella memorabile. Non resta che attendere la prossima tappa del percorso, con l’augurio di trovare vena creativa che davvero faccia fede alla volontà di liberare la propria musica in territori inesplorati.

 

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