Recensione: All Over You
Ho imparato a diffidare dagli album che esibiscono una giovine fanciulla in copertina, e il mio sospetto è solito crescere assieme all’avvenenza del soggetto ritratto. E’ così con una certa cautela che ho inserito nel lettore l’ultimo frutto della fatica di Ben Jackson, parzialmente rinfrancato dall’incoraggiante monicker. La chitarra degli storici Crimson Glory, dopo il debutto solista di quattro anni fa, torna in scena con un disco di hard ‘n’ heavy massiccio e moderno, a rinfoltire le fila di vecchie glorie in corso di aggiornamento stilistico. E se avevo torto a malgiudicare il disco dopo averne esaminato solo la prima pelle, è però vero che il tocco che rese immortali album quali Crimson Glory e Trascendence pare chiuso a doppia mandata in una cassaforte d’acciaio ormai sperduta nei profondi e, temo, irraggiungibili abissi del tempo. In parole povere: l’esperienza c’è, si sente ed è forse questa a tenere a galla l’album, ma da qualsiasi punto lo si voglia guardare, l’unico legame tra questo disco e i gloriosi capolavori del passato risiede esclusivamente nel nome del chitarrista. Tale aspetto, beninteso, non dovrebbe risultare necessariamente negativo, ma lo diventa nel momento in cui col trasloco stilistico buona parte della qualità viene dimenticata nella vecchia casa. Non voglio però ora dipingere un quadro troppo disastroso, sostanzialmente perché il quadro non è disastroso affatto. Tuttavia a leggere un nome come quello di Ben Jackson in copertina, non posso negare che mi sarei aspettato qualche contenuto in più.
E veniamo appunto ai contenuti. Il rock duro di chiara matrice americana (in effetti l’artwork andava interpretato in questo senso) da cui Ben attinge a piene mani è quello della fine degli anni ottanta, qui rivisto e aggiornato in modo massiccio per tenere il passo con i tempi. La prova vocale dello stesso axeman, dotato di un timbro aspro e aggressivo che ben si adatta al suo stile impetuoso alle sei corde, è piuttosto convincente, benché tutt’altro che miracolosa, e la scelta di farsi sostenere dalle backing vocals di Rose Marie Sexton pare azzeccata. Gli echi femminili aiutano infatti i ritornelli a suonare più eufonici e coinvolgenti, con quel tocco di ariosità tipicamente anni ottanta che non guasta mai. Il lavoro alle chitarre di Mark Borgmeyer e dello stesso Jackson appare inoltre serrato e diretto, preciso, benché a tratti un po’ monocorde, ma abbastanza autoritario da imporsi subito come motore trainante di ogni brano. Peccato che talvolta sia il songwriting a non apparire all’altezza, e chi si aspetta una partenza in quarta rischia di incappare in una cocente delusione.
Lo smunto corètto che introduce l’opener Turn It On vorrebbe infatti essere energico ma pare al contrario un po’ stonato, e non basta un buon contributo al basso di Fabrizio Fulco (l’ottima produzione riesce a non dimenticarselo per strada) a trarre in salvo un brano scadente, ulteriormente impoverito da un refrain decisamente scialbo. I nostri insistono con l’aggressività modernizzata di Mean Machine e sul piano qualitativo si nota una lenta accelerazione, ma il decollo è ancora lontano. Finalmente il disel di Ben comincia poco alla volta a carburare, e con Ghost in the Mirror il livello sembra essersi finalmente collocato su binari saldi e affidabili, grazie anche a un brillante accompagnamento pianistico e al lavoro dietro le pelli di Rich Tabor, capace di gestire con disinvoltura le atmosfere un po’ oscure di uno dei brani meglio riusciti del lotto. Molto bene anche il rock tradizionale della dinamica Eyes of Ice e della frizzante Far and Away, perfette dimostrazioni di come non sia indispensabile forzare la mano con furore modernista per ottenere buoni risultati. Queste due tracce costituiscono insieme alla precedente un trittico certamente decisamente positivo, ma la parabola qualitativa non pare destinata a crescere oltre, anzi. Infatti poco per volta, così come era partito, l’album si spegne, lasciando un po’ di amaro in bocca per il tempo perso tra decollo e atterraggio, ben superiore a quello dedicato al volo vero e proprio. E non basta una Rock ‘n’ Roll Heaven (or Burst) a far cambiare idea.
Così, tributato il giusto onore a una mano che ha scritto pagine fondamentali dell’heavy metal, non resta che archiviare questi quarantacinque minuti abbondanti nello scaffale delle uscite discrete, che forse gli affezionati dell’hard ‘n’ heavy suonato alla corte dello Zio Sam vorranno estrarre quando nei paraggi non si trova nulla di meglio. Le giovani leve conquistate da questo sound faranno bene a recuperare la nutrita sfilza di gemme a stelle e strisce che gli ultimi anni ottanta hanno saputo snocciolare: i capolavori sono lì. Inguaribili nostalgici ed estimatori sfegatati si accomodino, per un po’ troveranno pane per i loro denti, ma presto si accorgeranno che la longevità non è uno dei pregi di quest’album.
Tracklist:
1. Turn It On
2. Mean Machine
3. All Over You
4. Falling Down
5. Ghost In The Mirror
6. Eyes Of Ice
7. Far And Away
8. Heavy On My Mind
9. Break It
10. Rock ‘N’ Roll Heaven