Recensione: All Those Strangers
Ora ci sono Facebook, Myspace, Twitter e siti come il nostro Truemetal.
Ora ogni giovane band può avere l’esposizione mediatica che merita o semplicemente desidera.
Negli anni ‘80 e primissimi ’90, il proliferare delle “scene” musicali (leggi: la Bay Area di San Francisco con il suo thrash metal, Tampa e la Florida tutta con il suo putrescente Death Metal e ancor prima il Regno Unito con la sua mai troppo menzionata NWOBHM) era dettato dai musicisti stessi (cosa non così scontata) che si spostavano cercando la “terra promessa”, terra fertile per i loro sogni di gloria, aiutati da amici con i quali instauravano rapporti di incestuosa fornicazione musicale, scambiandosi membri (nel senso di musicisti!) e sostenendosi vicendevolmente in un clima di fervida creatività e selvaggia libertà artistica.
Erano anni nei quali il tape trading e il passaparola potevano portare una band al successo.
Erano anni nei quali i ragazzi si prodigavano in lavori legali e non, con il fine ultimo di pagarsi le chitarre e le sigarette, i microfoni e il Jack Daniels, un Marshall usato e lo smalto per le unghie.
Erano anni nei quali mai come prima d’allora valeva il motto “sex,drugs e rock’n’roll”.
Los Angeles era popolata da glamsters, un etnia colorata e al contempo oscura, ragazzi con capelli cotonati e virilità strette in spandex rosa. Gruppi “maledetti” come i Guns’n’Roses e Motley Crue erano sulla bocca di tutti, incendiando con i loro shows i locali della città californiana.
C’ erano anche i Vain.
Immortalata sulla copertina della “bibbia” rock –KERRANG!- ancora prima di firmare per una major, la band capitanata da Davy Vain fu una vera e propria cometa nel firmamento hard rock mondiale.
Nati nel 1984 come figli illegittimi di Alice Cooper (fu il tastierista della “strega” Alice, Paul Horowitz, a produrre il demo che li porterà ad un contratto) e Poison, i nostri pubblicarono nel 1989 il loro debut album – “No Respect” – sotto l’egida dell’etichetta Island, che scomoda per l’occasione il producer Paul Nortfield, già con Rush e Queensryche.
Un album che non delude le già grosse aspettative di pubblico e critica (nate grazie a dirompenti live di supporto a grandi bands ), proponendo brani diretti, orecchiabili ed adrenalinici.
Poi il Grunge.
Da Seattle (si parlava di “scene musicali” qualche riga più in alto) arriva un esercito di “anti rock star” in camicie a scacchi, che disarcionano i Vain da un cavallo su quale sono saliti in ritardo.
Gruppi come Nirvana e Soundgarden sono le nemesi di combo votati all’eccesso, alla spettacolarizzazione e all’immagine ed i Vain si ritrovano tra le mani un album che la Island non vuole e non può pubblicare.
A distanza di anni lo stesso Davy Vain immette sul mercato quello che fino ad oggi era una chicca per appassionati, l’ennesimo “trofeo” da conquistarsi su eBay a suon di click e carte di credito.
Ecco allora che ci accorgiamo che in fondo, non ci era mancata poi molto la voce “vinceneillesca” del lungocrinito singer, che con il suo timbro da paperino ci traghetta in un viaggio tra buoni riffs e cori pessimi, tra buone idee e pezzi anonimi.
L’opener “Love Drugs” con il suo flavour “punky” e stradaiolo potrebbe anche divertirci se non fosse semplicemente una canzone bruttina a metà strada tra Ramones e Billy Idol.
Jamie Scott e Danny West macinano riffs con poca convinzione e la sezione ritmica non ci stupisce particolarmente.
Dobbiamo aspettare “Shootin Star”, per trovare un buon groove rock e divertirci immaginando di guidare nelle strade illuminate dalle mille luci di una notturna e peccaminosa Los Angeles.
Ormai “abituati” alla voce di Vain, pezzi come “Too Bad” e “Far Away” scorrono come acqua limpida che una volta bevuta non lascia nessun retrogusto.
Ci ri-addormentiamo fino a “Here Comes Lonely”. Niente di trascendentale ma un buon pezzo con qualche spunto interessante.
“Shouldn’t Cry” è finalmente un brano piacevole, una dolce ballata che si snoda su un arrangiamento molto semplice ma azzeccato e in cui i nostri si muovono con naturalezza senza l’obbligo auto imposto di dover apparire “belli, dannati e pericolosi” a tutti i costi.
“Do you sleep with strangers” e “Lookin Glass” partono alla grande con un buon guitar work ma si perdono ben presto in ritornelli scontati e ossessivi e, come la maggior parte dei brani, hanno il difetto di non “stamparsi” in testa. Solos per nulla melodici e mal costruiti non aiutano a farci metabolizzare le tracce, impoverite da cori davvero pessimi e da anonime linee vocali.
I Vain falliscono nell’intento di seguire l’approccio dei (primi) Poison, con attitudine Street Punk e appeal festaiolo e ancor peggio nel clonare (male) la pericolosità magnetica dei Crue e dei Gunners.
Prodotto da Jeff Hendrikson e dallo stesso Vain, “All Those Strangers” era una chicca per collezionisti e come tale dotata di valore intrinseco.
Recuperando il disco e gettandolo in pasto ad un pubblico ormai viziato, i Vain si espongono ad un giudizio che non può che essere inclemente.
A volte i tesori, è meglio restino sepolti.
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Tracklist:
01. Love Drug
02. Planet’s Turning
03. Shooting Star
04. Too Bad
05. Far Away
06. Wake Up
07. Freak Flag
08. Here Comes Lonely
09. Shouldn’t Cry
10. Do You Sleep With Strangers?
11. Looking Glass
Line Up:
Davy Vain – Voce
Danny West – Chitarra
James Scott – Chitarra
Ashley Mitchell – Basso
Tom Rickard – Batteria