Recensione: All Your Fear Is Gone
Secondo capitolo di una trilogia annunciata, All Your Fear Is Gone (autoprodotto e mixato da Jens Bogren) è, altresì, il nuovo album di un supergruppo progressive metal che ha fatto ben sperare quattro anni or sono. Se I Am Anonymus si presentava accattivante nell’artwork e nei testi intimisti, il suo successore sembra replicare il dettato stilistico della band: un cervello visto dall’alto racchiuso in una sfera di cristallo… vengono in mente le copertine di Marbles dei Marillion e Presents of Mind dei Tiles! La line-up è confermata nei suoi 4/5, cambia solo il batterista, Adam Falkner (scelto dagli strumentisti del gruppo), al posto di Rick Brook, alle prese con impegni familiari inderogabili.
Wilson è di nuovo addetto ai testi, a suo dire il concept questa volta concerne «the group’s inability to control the individual. It’s about governments, big business and religion but also the smaller social groups we form. They exist as a method of ensuring conformity, always with a pecking order. (L’inabilità del gruppo a controllare l’individuo. Parla dei governi, grossi affari e religione, ma anche dei più piccoli gruppi sociali che formiamo. Essi esistono come modo per garantire il conformismo, sempre con un ordine fastidioso)» Il cantante dei Threshold insiste nel trattare del lato spontaneo e inesauribile della creatività artistica (“Creativity is never thought through, or predetermined. But it occurs spontaneously.) quale rimedio all’attuale società dell’ottundimento generale (“I am not being negative, but what I want to do, as with the previous album, is to make people think about what’s going on.”). Aggiunge che AYFIG è un album ricco di simbolismi e pluriprospettico come il predecessore: la paura che bisogna scacciare è quella “that comes from being controlled and manipulated”.
Dal punto di vista dei testi non manca, dunque, la dovuta coerenza con il primo capitolo della trilogia, così come per quanto riguarda il minutaggio poderoso, le contaminazioni djent e, soprattutto, la qualità messa in campo dal mattatore Wakeman, sempre sugli scudi. Quello che c’è di nuovo è, nel complesso, un passo avanti rispetto al debutto, un maggiore assortimento di atmosfere e alcuni momenti strumentali degni dei migliori Dream Theater. Quello che ancora non convince è l’aspetto “posticcio” del prodotto finale: come confessa candidamente Wilson, il lato positivo e negativo degli Headspace sta nell’essere un supergruppo, ognuno compone per suo conto e la fase di assemblaggio finale ha del miracoloso, tanto da stupire lo stesso vocalist che ha registrato le parti vocali in pochi giorni ai Thin Ice Studios.
Veniamo alla musica. Va premesso che la scaletta ha un che di atipico: dopo una prima parte con due brani da sei minuti e uno da otto, segue una prima suite, mentre la seconda e ultima suite chiude il platter, dopo altre cinque song dal minutaggio più contenuto. Si poteva puntare su una maggiore concisione, ma, lo sappiamo, questo concetto non è di casa con gli Headspace.
L’opener inizia sornione, dopo cento secondi arriva il metal, con i chitarroni droppati e l’hammond solenne di Wakeman. La strada per la supremazia è un pezzo che convince, con richiami agli Ayreon e una bella coda di pianoforte. La seguente “Your life will change” presenta un avvio bachiano di Wakeman ai tasti d’avorio; buone anche le linee di basso di Pomeroy, i ritmi sono sincopati e si sposano con armonie di tastiera oscure. Il break alla fine del secondo minuto regala un ottimo Damian Wilson, che con gli Headspace ha modo di osare di più rispetto a quanto fatto nei Threshold: la sua voce, rimasta intatta da primi anni Novanta, su registri alti e toccanti è una vera manna e rivela un lato inedito del frontman inglese (vedasi già in “Soldier” e “Die with a bullet”). A supportarlo il pianoforte di Wakeman che, per missaggio, ricorda le atmosfere fatate di Rikard Zander (Evergrey). Nell’ultimo terzo della composizione, il prog. prevale e i cugini Haken non avrebbero da ridire. Si rifiata con “Polluted Alcohol”, un pezzo inusuale, su lidi country (un po’ come “Smuggler’s corridor” dei The Aristocrats), scritto a due mani, Wilson-Rinaldi. Non conoscevano questo lato degli Headspace, una piacevole sorpresa e in una posizione anomala in scaletta. Brusca virata con “Kill yout kindness”, subito pezzo diretto e djent, che però regala parentesi semiacustiche delicate a metà minutaggio, per poi riesplodere con un trattamento delle seconde voci che fa venire in mente il sound di Mr. Devin Townsend.
Dopo un breve intro semiacustico, “The Element”, arriviamo alla prima vera suite del platter, la più lunga. “The science within us” non disdegna alcune spigolosità dissonanti nei primi minuti, la voce di Wilson è filtrata e incalzante (sembra di ascoltare “Spitfall” dei Pain of Salvation), poi tutto si calma per rivelare l’istrionismo di Damian, irresistibile nelle dinamiche più intime. Senza soluzione di continuità ci ritroviamo in un tunnel sonoro claustrofobico, Rinaldi sciorina una assolo sul finire del sesto minuto, poi l’atmosfera si fa ovattata, con Wilson che ripete in loop “Did you never notice the science witin us?” Mai come in questo caso, bisogna avere i testi sotto mano per apprezzare il valore dei brani. La suite termina in modo pirotecnico, con unisoni gagliardi e maestria tecnica degna degli Shadow Gallery (ma in realtà vengono in mente i DT di Octavarium): tra i momenti più intensi del disco.
Prima della suite d’epilogo, quattro brani (e un intro) finiscono di comporre una scaletta che ribadiamo essere sui generis. Traccia potente, “Sempahore” nella prima parte è una colata di “metal 2.0”, Rinaldi stupisce, Wakeman è sempre sul pezzo, la sua si conferma una prova notevole. Per avere un altro sussulto bisogna aspettare la ripresa nel finale. “The death bell” (solo voce e tastiere) introduce la breve “The day you return”, dalla struttura complementare a quella di “Semaphore”: qui abbiamo prima una parte tranquilla, quella metal segue e Wakemann fa intravedere lidi videoludici con i suoi synth di matrice paterna. Altro highlight del full-length, la title-track è spiazzante: una ballad in terzultima posizione, come non restare basiti? Rinaldi imbraccia una chitarra semiacustica, Wilson è un narratore forte di pathos, le seconde voci donano spessore aggiuntivo. Si possono fare confronti con gli Abydos di Andy Kuntz, o con gli Ark di “Just a little crazy”. Un senso di nostalgia genuina pervade “Borders and days”, i sintetizzatori impiegati sono calzanti, il basso è una goduria.
Due ballad consecutive possono sembrarvi troppe? Tranquilli, come gran finale ci sono i dieci minuti di “Secular souls”, che inizia con voci bianche a recitare il Miserere (molto gettonato in ambito metal). Il dettato sonoro è vicino a quello dei cugini Threshold, peccato per la scelta di un synth fuori luogo al terzo minuto (Wakeman copia il peggior Rudess). Alcune linee vocali permettono a Wilson di spiccare. Nel prosieguo il nome che viene in mente è di nuovo Haken, forse le citazioni questa volta sono un filo troppo esagerate. Gli ultimi minuti sono catartici, anche se richiedono pazienza da parte dell’ascoltatore.
In definitiva AYFIG è un album per niente fugace e che scaccia le paure che avrebbero voluto gli Headspace mera meteora prog. Restano sono i difetti del debut album, ma è stato fatto un leggero passo avanti. Possiamo dire che il platter è superiore di misura a quanto appena pubblicato dai Redemption e dai Circus Maximus. Aspettiamo l’ultimo capitolo della trilogia, è sempre bello veder comporsi il mosaico…
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)