Recensione: Altars Of Madness
1989: anno di pubblicazione di due album destinati a rimanere pietre miliari in ambito Death metal. Infatti arrivano quasi in contemporanea Symphonies Of Sickness e appunto questo Altars Of Madness. Col senno di poi non è possibile non invidiare i fortunati che in quegli anni hanno assistito di prima persona al vero e proprio sconvolgimento a cui andava incontro la scena: è ovvio che due album non hanno in sè il potere di rivoluzionare un movimento, ma è altrettanto vero che queste due uscite hanno dato uno scossone che assieme ad altri fattori collaterali è stato l’inizio di una vera e propria valanga. Se quindi si vuole ricostruire i vari momenti di questo genere, non è possibile non definire delle tappe fondamentali, e tra queste l’esordio dei Morbid Angel è senza ombra di dubbio una delle più importanti.
I primissimi secondi dell’opener “Immortal Rites” sono ad ogni ascolto un vero e proprio godimento: una sorta di preparazione, di attesa, al primo vero e proprio riff, uno dei più esaltanti in assoluto nella storia del metal. Ma, più in generale, l’attesa che inizi una lunga tirata di Death metal di qualità, una serie di episodi uno più entusiasmante dell’altro, dei quali Immortal Rites non è che l’incipit. Infatti segue spietata “Suffocation”, caratterizzata dai medesimi ritmi ultra tirati che tanto sembrano piacere a Pete Sandoval, e da un ritornello tanto semplice quanto efficace. Già le sole prime due tracce basterebbero a giustificare l’acquisto del Cd, ma proseguendo nell’ascolto vi troverete davanti ad altri episodi altrettanto validi.
Per esempio la terremotante “Blasphemy Of The Holy Ghost”: un susseguirsi di stacchi follemente veloci, un accumularsi di blast-beats da paura, poche parti cadenzate che non spezzano il ritmo pur concedendo una tregua… insomma, un vero e proprio massacro. Probabilmente si rivela il brano più violento dell’intero album, e fin da subito vi suggerisco di procurarvi la versione live (presente su Entangled In Chaos) dove troverete una riproduzione tanto fedele quando emozionante. Ancora tre sono gli episodi necessariamente da citare. Il primo è “Maze Of Torment”, dal riffing molto accattivante e ricca di quegli arrangiamenti chitarristici che rendono caratteristico il suono della band; merito del grande Trey Azagthoth, dallo stile inconfondibile grazie ad assoli al limite dell’umana velocità e talvolta quasi rumoristici.
Stupiscono poi “Lord Of All Fevers & Plague” (a dire il vero presente solo sulle ristampe), la quale ha un andamento molto catchy, ma soprattutto “Chapel Of Ghouls”, una delle mie canzoni preferite di sempre in ambito Death metal. Questo, come tutti i capolavori, ha il pregio di essere riconoscibile in mezzo a mille album: non può essere un semplice lavoro di transizione, o vi appassionerà o ne girerete alla larga. Assieme al successivo Blessed Are The Sick costituisce l’apice compositivo di un gruppo che sin dagli esordi continua, e continuerà ancora per molto, a cavalcare la cresta dell’onda, travolgendo tutti coloro che si nascondono dietro chili di apparenza senza proporre poi nel concreto niente.
Matteo Bovio