Recensione: Altered State
Tra i gruppi che stanno dominando la scena del cosiddetto djent metal (per chi avesse vissuto su Marte negli ultimi sei-sette anni: un mix di post thrash, prog metal e mathcore), i britannici TesseracT, grazie alle innegabili capacità tecniche e compositive, occupano di certo una posizione di rilievo.
Secondo la storia, il primo embrione della band vide la luce nell’ormai lontano 2003 come progetto solista del chitarrista Acle Kahney, all’epoca semplice studente degli anni duemila, appassionato di chitarre e fortemente attratto dalla Rete. La stessa rete che, tramite forum, Youtube ed altro ancora ha visto (e vede tuttora) svilupparsi una generazione di bedroom musicians/producers di cui Acle Kahney, Misha Mansoor e Tosin Abasi sono forse gli esempi più noti. Ci volle un po’ di tempo, ma, con l’innesto graduale di altri musicisti come Jay Postones (batteria), James Monteith (chitarra) e Amos Williams (basso), i TesseracT nel 2007 assunsero finalmente le sembianze di un vero e proprio gruppo.
Come nel caso di molti altri colleghi conterranei e d’oltreoceano quali Periphery, SikTh e The Safety Fire, la proposta musicale di Kahney & Co. si regge in larga parte sull’abilità nell’incastrare soluzioni melodiche intelligibili (quando non addirittura “orecchiabili”) in mezzo alle complesse strutture ritmiche e all’impatto sonoro tipici del mathcore e del prog metal più spinto. In effetti “One”, il debut album dei britannici uscito nel 2011, rispettava appieno il paradigma, proponendo un sound spigoloso quanto mitigato dalle fascinose linee vocali di un Daniel Tompkins forse non ineccepibile dal mero punto di vista tecnico quanto certamente dotato di cuore e grande fantasia.
Negli anni successivi, con l’avvento di Elliot Coleman prima e di Ashe O’Hara (attuale titolare del microfono) poi, le coordinate sonore dei TesseracT hanno, viceversa, subito un processo di progressivo addomesticamento del quale “Altered State” rappresenta, ad ora, l’ultimo gradino evolutivo. Sul nuovo album le chitarre graffiano e sferragliano solo in determinati frangenti, i suoni si fanno limpidi e cristallini e persino del growl e dello scream non v’è più traccia. Permane, al contrario, la volontà di mantenere un filo conduttore “ontologico” tra le varie tracce, questa volta divise in quattro movimenti che paiono rimandare all’antica filosofia: “Of Matter”, “Of Mind”, “Of Reality” ed infine “Of Energy”.
Ma, vi starete giustamente chiedendo, «Tralasciando le descrizioni e venendo al sodo, il disco com’è?» Facile e insieme difficile a dirsi. A livello globale “Altered State” è un disco indiscutibilmente bello; eppure, nel contempo, ad ogni ascolto rimane un filo d’amaro in bocca. Sotto determinati punti di vista (esecutivi, compositivi, d’arrangiamento) i TesseracT mostrano di essere cresciuti parecchio rispetto al debutto e alcuni pezzi assolutamente fantastici come l’azzeccatissimo binomio d’apertura, l’orecchiabile “Nocturne” o il favoloso smooth djent di “Calabi Yau”, con quel sax sbarazzino punteggiato da batteria, basso e chitarre, sono lì a dimostrarlo in maniera inequivocabile. Nonostante questo si sente un po’ la mancanza dell’irruenza tipica di “One” così come mancano le parti più tirate, quelle che fanno risaltare ancor di più le sequenze melodiche, e, a dirla tutta, pur lodando l’ottima prova del nuovo arrivato Ashe O’Hara, è giusto evidenziare come le linee vocali mettano in bella mostra un family feeling alle volte fin troppo evidente.
Manca, infine, un vero colpo da KO e, pur che di qualità ce ne sia a volontà tra le note delle quattro canzoni già citate come pure nella AOR/rockeggiante “Palingenesis” o nelle più townsendiane “Eclipse” e “Singularity”, in “Altered State non troviamo i picchi qualitativi che hanno reso grandi gli ultimi album di Periphery e Protest The Hero. Un vero peccato perché forse staremmo parlando di un altro tassello fondamentale per il metal degli anni 2010 e invece abbiamo tra le mani “solamente” un buonissimo album di metal sperimentale.
Per certi versi un peccato, d’altro canto è pur vero che stringiamo tra le mani un disco non da tutti, colmo di spunti creativi e con alcuni momenti davvero interessanti: accontentarsi non è mai stato così piacevole.
Stefano Burini
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