Recensione: Amanethes
Lungi dall’essere uno dei tanti, tantissimi gruppi gothic metal apparsi e scomparsi come meteore nel firmamento, i Tiamat sono forse la vera essenza dell’unione moderna tra metal e gothic, con quell’abbondanza di glamour che ormai funge da archetipo per il genere. Hanno sempre indicato la via, anche con album tutto sommato assestatisi negli ultimi anni, e lo fanno tuttora ma… qualcosa, nella macchina, non ha funzionato, per questo nuovo capitolo della loro storia.
Cinque anni ci sono voluti per sfornare Amanethes, un disco che sorprendentemente (ma non troppo) guarda al passato senza poi dimenticare il presente: ormai da ere geologiche Edlund e la sua banda non ci proponevano sonorità al confine col death/doom di Clouds, e qui si va per la prima volta a rispecchiarsi in acque così cupe, ma sempre e comunque barocche, come il gruppo non può rinunciare ad essere.
Sono passati 5 anni di tuoni, fulmini e pioggia, ma siamo qui di nuovo, ci ricorda grottescamente Edlund introducendoci al disco e promettendoci altrettanti anni di emozioni; solo che la canzone si trascina stancamente su un ritornello carino ma effimero, con un assolo finale ma anche fine a se stesso, e con lo spessore del gothic rock leggero dei Lucyfire, interessante e dimenticato (?) progetto parallelo del pelato singer. Più accattivanti sicuramente le pure aggressioni, perlomeno se paragonate allo standard odierno dei Tiamat, sparpagliate qua e là nella tracklist: semplicemente epica e d’impatto la seconda Equinox of the Gods, che ha il solo difetto (e non è l’unica, maledizione) di trascinarsi inutilmente a lungo; maligna e potente Raining Dead Angels, titolo estremo per un pezzo che, di nuovo, sa graffiare con voce e chitarre e creare la giusta orchestrazione con un uso esperto delle tastiere. Sono questi i pezzi in cui il suono cercato, oggi, dai Tiamat appare completo e maturo, ma sono purtroppo dispersi.
Dispersi perché nel mezzo c’è tutta una serie di brani che solo l’amore per la band impedisce di definire crudamente come “filler”: riempitivi tutto sommato superflui, come la quasi punky Katarraktis Apo Aima, come il suono “voglio-suonare-come-i-Fields-Of-The-Nephilim-ma-non-ci-riesco” della noiosa, ripetitiva Until the Hellhounds Sleep Again, del singolone Lucienne, canzone progettata per fungere da brano di punta, ma che riesce principalmente a suonare artefatta.
Amanethes, in ultima analisi, si salva solo per i pezzi sopracitati e per i momenti di vera, sincera emozione, che non sono la ballatona (che fa molto Nick Cave) Misantropolis: sono le chitarre acustiche di Amanitis, il muro di suono di Via Dolorosa, il loro modo di ricordarci che i veri Tiamat sono una vibrazione, un’immagine anche solare (ricordate tutti i colori e le visioni di Wildhoney, vero?), non la paccottiglia gotica così ben esemplificata dalla più brutta copertina da loro mai proposta. E ora, per cortesia, non fatemi collegare quel voto lì in basso a quella label là in alto… Pregiudizi? No, un trend reale e preoccupante. E deleterio, in questo caso, per i Tiamat.
Alberto ‘Hellbound’ Fittarelli
Tracklist:
1. The Temple of the Crescent Moon 05:33
2. Equinox of the Gods 04:35
3. Until the Hellhounds Sleep Again 04:07
4. Will They Come? 05:13
5. Lucienne 04:41
6. Summertime Is Gone 03:53
7. Katarraktis Apo Aima 02:43
8. Raining Dead Angels 04:18
9. Misantropolis 04:13
10. Amanitis 03:21
11. Meliae 06:11
12. Via Dolorosa 04:06
13. Circles 03:48
14. Amanes 05:29