Recensione: Ambition’s Price
Mi sono avvicinato per caso a questo “Ambition’s Price”, attirato dalla splendida copertina ma senza conoscere nulla del gruppo californiano dei Graveshadow, che mi si dice essere arrivato con questo al secondo album (più un EP); immaginate la mia sorpresa quando dalle casse, oltre a un’apertura sinfonica dall’intenso profumo di Nightwish, è scaturita anche la splendida voce di Heather Michele, che già avevo imparato ad adorare nel debutto degli Helion Prime. Spulciando la rete, vengo a sapere che i Graveshadow si sono formati nel 2013 e hanno costruito il loro seguito di fedelissimi grazie a numerosi concerti soprattutto negli stati dell’ovest: la loro musica è un solido U.S. power metal screziato di symphonic, in cui chitarre grintose si accompagnano a tastiere dal profumo goticheggiante e ritmiche marziali, il tutto coronato dalla voce ammaliante della già citata Heather. Per non farsi mancare nulla, poi, il gruppo ricorre al classico dualismo vocale angelico/demoniaco, ma in questo caso è la stessa Heather che si accolla entrambe le parti, affiancando alle sue splendide e limpide armonizzazioni anche un growl acido decisamente spiazzante, accostabile a quello di Alyssa White Gluz e forse un po’ troppo fuori contesto in un album di questo tipo, ma che dopo ripetuti ascolti ho iniziato pian pianino ad accettare. Per chiudere il cerchio sulla proposta dei nostri baldi californiani va notato un amore, neanche troppo celato, per una certa nerditudine videoludica, ma a questo ci arriveremo poi.
Come dicevo, l’album si apre con le delicate tastiere dall’intenso profumo di vecchi Nightwish; in breve anche le chitarre entrano in scena per dare un po’ di grinta: “Doorway to Heaven” si mantiene su velocità piuttosto contenute, per dare la possibilità a chitarre e tastiere di guardarsi a vista mentre Heather inizia a grattugiarsi le corde vocali. Inserti aggressivi a parte – come vi dicevo, mi sto abituando solo adesso – la canzone scorre comunque senza problemi, svolgendo abbastanza bene il suo ruolo di opener anche grazie agli azzeccati cambi di atmosfera. “Widow and the Raven” procede più o meno sulle stesse coordinate, evidenziando gli elementi sinfonici e alzando i ritmi di tanto in tanto, come nel ritornello molto accattivante; qui è la voce pulita a dettar legge (il growl compare solo nell’ultima parte e solo per una breve fiammata), e il tono della canzone risulta quindi più disteso, mentre la title track si apre con un arpeggio oscuro che si intreccia a passaggi sinfonici dello stesso regime. “Ambition’s Price” procede su ritmi scanditi, maligni, cesellati però dalle tonalità più morbide di Heather che si abbandona alle harsh vocals solo a partire dalla metà del brano, poco prima del bell’assolo carico di pathos. La voce si mantiene rabbiosa per tutta la seconda parte della canzone, che si chiude sfumando nuovamente nell’arpeggio iniziale. Partenza ben più briosa per la successiva “Hero of Time”, dall’incedere assai più solare e propositivo. Qui i ritmi vivaci di un heavy rock si sposano molto bene con le armonizzazioni pulite e a melodie ariose, che trovano compimento nell’assolo breve ma d’effetto e nell’alzata di tono finale, in cui i nostri alzano anche il tasso di trionfalismo del pezzo confezionando una bella sferzata di ottimismo. Un arpeggio rilassato apre “Gates”, in cui si torna a velocità più contenute e a una certa tensione solenne. La voce si mantiene distesa durante la strofa, quasi elegiaca, almeno fino all’arrivo del ritornello e della conseguente impennata di trionfalismo. Anche in questo caso l’assolo ricama senza strafare, punteggiando la base rocciosa e le orchestrazioni di un gran bel pezzo, forse il primo in cui il growl non mi ha dato fastidio fin dall’inizio. “The Unspoken” è una traccia strana, che parte arrogante e dominata da un incedere abrasivo per poi nobilitarsi con un ponte di tutto rispetto e un ritornello notevole, chiudendosi con un finale ritmato che, nella sua minacciosità un po’ naif, a me è piaciuto molto. “Return to Me” sembra calcare la mano sul lato romantico dei nostri grazie a melodie tranquille e un cantato posato; con l’andar del tempo il brano si irrobustisce leggermente senza mai abbandonare, tuttavia, il suo registro da maestosa ballatona; nonostante la mia nota avversione per questo tipo di brani, devo dire che sono arrivato alla fine dei suoi cinque minuti e quaranta senza alcun problema, forse per via di un uso delle melodie ponderato e molto ben distribuito, per evitare di sforare il livello di guardia.
Si arriva, ora, ad un trittico di canzoni legate tra loro a formare un mini-concept intitolato “Call of the Frostwolves”. Così su due piedi, un titolo del genere potrebbe non dire nulla alla maggior parte di voi, ma se siete addentro all’universo di World of Warcraft (come lo fu il sottoscritto per un certo periodo della sua giovinezza) saprete tutto ciò che c’è da sapere sul clan Frostwolf e sulle vicissitudini del personaggio trattato qui: Go’el, figlio di Durotan e meglio noto al resto del mondo videoludico col nome di Thrall. Vi risparmio la storia del personaggio per concentrarmi sulla resa delle canzoni. “Slave” incede su tempi blandi sporcati di tastiere sinfoniche, lasciandosi andare a una certa maestosità durante il ritornello e nella parte centrale più incalzante, mentre il finale trionfale apre a “Liberator”. Qui si parte subito con riff aggressivi, spalleggiati in un batter d’occhio da tastiere atmosferiche, mentre il tradizionale urlo di guerra dell’Orda, Lok’tar ogar, apre le ostilità su una canzone aggressiva in cui è il growl a farla da padrone, solo sporadicamente stemperato da una voce pulita beffarda e irridente. “Warchief” chiude questo mini-concept con un andamento tipicamente heavy, muscolare e sfacciato, in cui la limpida voce di Heather trova il suo alveo ideale; le parti si invertono, qui sono le armonizzazioni pulite a dettare le regole, caricando le melodie maestose del resto del gruppo con note trionfali solo di tanto in tanto sostenute dal growl e creando il giusto climax per il trittico appena descritto.
Chiude l’album “Eden Ablaze”, introdotta da un’elegante apertura di piano; l’ingresso in scena del resto del gruppo permette alla canzone di svilupparsi su tempi scanditi e anthemici ma un po’ troppo leggeri, impreziositi da melodie sì enfatiche ma, forse, un po’ stucchevoli che sfumano giusto in tempo per il finale.
Alla luce di quanto detto, non fatico a definire “Ambition’s Price” un bell’album, solido e di carattere anche se non particolarmente innovativo, che nonostante alcuni aspetti secondo me da rivedere e una certa monotonia ritmica può dire tranquillamente la sua nell’affollato calderone del Power, e si candida a far parte dei miei ascolti per parecchi mesi a venire.
Bella scoperta.