Recensione: Amends
Al di là della qualità intrinseca di un album, della sua originalità, del bagaglio tecnico esplicitato dagli artisti e, soprattutto, al di là dello sterile voto numerico e oltre la fredda analisi del recensore di turno, ci sono uscite discografiche che, benché di nicchia, riescono a ritagliarsi uno spazio significativo nelle preferenze degli appassionati. Chi scrive ha notato questo fenomeno in modo particolare tra i sottogeneri più atmosferici ed intimisti della musica supportata dal portale che state leggendo. Forse è proprio la necessità di un ascolto ragionato che porta l’ascoltatore ad un’immedesimazione maggiore e, di conseguenza, ad un’affezione più intensa. Gli esempi in questo senso sono molteplici: senza scomodare i grossi nomi svedesi e britannici, rimanendo in un contesto più underground, non possono non essere menzionati i “casi” di Agalloch, Alcest ed affini, che in pochissimi anni sono riusciti a diventare punti fermi nelle playlist degli amanti di certe sonorità, grazie alla meravigliosa sinergia di musica, testi, concept e visioni.
The Fall Of Every Season, progetto one-man del giovane norvegese Marius Strand, con Amends giunge alla sua seconda uscita dopo From Below del 2007 e, come il predecessore, riesce proprio ad aggiungersi alla suddetta lista di band in grado di raggiungere la sublimazione di musica e sensazioni, attraverso composizioni mai fine a se stesse, dove il concetto stesso di filler è semplicemente inesistente e dove ogni singola nota va centellinata per poterne apprezzare a fondo il ruolo nell’insieme. Un insieme di oltre cinquanta minuti di musica diviso in quattro pezzi più un breve intermezzo strumentale; una lunghezza dei pezzi che sembrerebbe fungere da repellente per chi cerca immediatezza e facilità di ascolto, invece è solo il frutto della spontanea creatività del songwriter che, con semplicità disarmante, preferisce “lavorare con lentezza”, parafrasando un film di qualche anno fa e in questo ricorda un giovane Mikael Akerfeldt, nell’approccio più che nello stile, perché non si percepiscono fortissime somiglianze tra gli Opeth e The Fall Of Every Season, se non una vaga affinità di genere.
Spiace quasi dover entrare nel merito dei singoli pezzi, perché, come si è detto, questo lavoro è tutto fuorché un succedersi di canzoni. Piuttosto che tentare un maldestro tentativo vivisezionare freddamente il disco, è certamente più generoso nei confronti dell’album provare a descrivere gli stati d’animo percepiti: lentezza, si diceva prima. Ebbene, è proprio questo uno dei primi elementi che si percepiscono immergendosi nell’ascolto. Ma non necessariamente perché si tratti di ritmiche pacate, anzi – vedremo – non sempre sarà così, quanto piuttosto per quella sensazione di tranquillità che traspare lungo tutto il lavoro, anche nei momenti meno delicati. Nell’indole di Strand appare evidente l’obiettivo non di stupire con trovate ad effetto quanto piuttosto quello di prendersi tutto lo spazio necessario per potersi esprimere. Siamo certamente all’interno del filone doom-death progressivo, ma, pur rimanendo all’interno dei canoni del genere, lo stile di The Fall Of Every Season è personale, seppur non originalissimo. I momenti più pesanti e quelli più delicati si integrano perfettamente, di più, si completano tra loro come non avveniva dai tempi dei migliori lavori dei già menzionati Opeth, degli Edge Of Sanity di Crimson, dei Draconian, dei Novembre e di tutte quelle band che negli ultimi anni hanno reso grande il genere. Discorso simile per le harsh vocals, presenti non per rinsaldare a tutti i costi un legame con la musica estrema, ma perché sono vera e propria parte integrante del pezzo. Altro aspetto interessante, una volta tanto non è il pessimismo cosmico a farla da padrone: fin dalla meravigliosa copertina, passando attraverso il layout del booklet e, ancora più importante, arrivando ai testi, è difficile lasciarsi andare a sensazioni di completo abbandono e disillusione; una sorta di staticità descrittiva, assolutamente ermetica, pervade il lavoro e, anche ascoltandolo ripetutamente, non risulta fastidioso rimanere spettatori silenziosi delle visioni fatte musica di The Fall Of Every Season.
Ad una pachidermica, nel vero senso del titolo, The Mammoth, si contrappone forse la migliore traccia del disco – comunque convincente per tutta la sua durata – la sognante e visionaria Aurelia, vero è proprio manifesto del progetto, pezzo totale e appagante, con il suo incipit acustico, le sue vocals delicate, sognanti, quasi asettiche, doppiate senza soluzione di continuità dal cantato aggressivo. Un quadro talmente bello che, a pochi mesi dall’uscita, ha ispirato già splendidi tentativi di trasposizione in video.
Amends è un lavoro completo e soddisfacente, da ascoltare, non solo da sentire. Lontano dalla musica usa e getta, personale come solo una one-man band può essere, merita l’attenzione di chi nella musica cerca qualcosa di più di un semplice passatempo. Delicato e possente, intimista e maestoso: sarebbe davvero un peccato trascurarlo.
Vittorio “Vittorio” Cafiero
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