Recensione: American Trash
Negli anni Novanta del ventesimo secolo l’hard rock melodico e l’AOR vissero la loro fase di declino di popolarità e di eclissi mediatica.
Eppure, anche quel decennio regalò agli indefessi appassionati di tali generi musicali qualche pietra preziosa d’inestimabile valore artistico. Tra queste, è da annoverare senza dubbio il debut album dei Crown Of Thorns, rilasciato nel 1993: l’omonimo lavoro, infatti, si palesava come uno scintillante concentrato di robustezza hardeggiante e patinate armonie.
I Crown Of Thorns includevano nelle proprie fila, in posizione di leadership, il cantante (e non solo) Jean Beauvoir. Una figura inconfondibile, quella del polistrumentista di origine haitiana, anche dal punto di vista visuale. La cresta da mohawk dell’artista, insieme alle sue doti espressive, ha caratterizzato, difatti, prima la line-up dei punkettari Plasmatics (capitanati dalla trasgressiva Wendy O. Williams), poi, appena più avanti negli Eighties, anche quella dei Disciples of Soul di un Little Steven in libera uscita dalla E-Street Band di Bruce Springsteen, e quindi, ancora, degli effimeri Voodoo X.
Non solo: il Beauvoir ha collaborato pure con svariati musicisti di chiara fama, ed è stato autore anche di album in qualità di solista, registrando, in particolare, la sua presenza nel fondo della classifica di Billboard con il singolo Feel The Heat.
I Crown Of Thorns hanno, comunque, continuato, guidati dal nostro, a concepire full-length di soddisfacente caratura, fino al più recente Faith del 2008.
Nel primo album dei Crown Of Thorns, accanto al frontman dalla cresta platinata, vi era il chitarrista nativo americano Micki Free, successivamente promotore di un progetto intitolato Native Music Rocks.
E proprio con quest’ultimo si è riunito Jean per il suo nuovo lavoro fuori dalla band principale, opportunamente attribuito al monicker Beauvoir/Free, intitolato “American Trash” ed in uscita per Frontiers Music.
L’intento dichiarato di questo progetto è proprio quello di rinverdire i fasti del sunnominato primo lavoro dei Crown Of Thorns.
Il marchio di fabbrica di tale band, in effetti, è evidente fin da Angels Cry. Stiamo parlando di un rocker cadenzato, dai contorni hard imbevuti di melodia, nel quale il canto energico e la chitarra alle prese con un assolo come quelli di una volta s’immergono in un gusto sonoro comunque abbastanza up-to-date. Morning After, di contro, pur se aperta da penetranti riff d’ascia ottantiani, si dispiega in uno sviluppo determinato ma carico di melodia sia dei vocals sia nei fraseggi della sei-corde.
Pure American Trash e Whiplash si muovono su un percorso scandito e contrassegnato da ancora maggiori risolutezza ed anima, con le chitarre sempre in bella vista come grandi protagoniste.
In chiave di hard rock ad alto tasso di ariosa melodia si muove pure la conclusiva There’s No Starting Over, mentre in Shotgun To The Heart, a metà del platter, il ritmo aumenta e ci porta dritto dritto trent’anni indietro nel tempo nei meandri di un AOR luminoso, avvincente e cromato.
Il filone, immancabile, delle ballad espone una piccola perla. S’intitola Just Breathe, uno slow pianistico di gran classe e dal puro fascino AOR, la quale ci trasporta dalle parti di Standing on the Corner for Ya. Tanti, in American Trash, sono i brani che si dislocano su scenari armoniosi pur senza assumere i contorni del vero e proprio “lentaccio”: Never Give Up, ad esempio, una semi-ballata con flavour di american music tanto consueta quanto evocativa ed affascinante; da citare, poi, It’s Never Too Late, midtempo aperto e come sempre finemente intarsiato dalle chitarra elettriche, e, infine, Cold Dark December, dal rilevante gusto melodico che la rende particolarmente accattivante e pop.
E pure venature pop palesa She’s A Ko, curiosamente “leggera” e piena di spunti sixties nonostante i chitarroni che la sorreggono.
In conclusione: American Trash è un album grintoso, ben suonato, accattivante. Tra lick, assoli e melodie, propone, difatti, pane per i denti di chi ha gli scaffali stipati di album pop-metal anni ottanta. Non si registra, naturalmente, in questo full-length, alcuna novità stilistica o proposta rivoluzionaria, e va detto che, rispetto al primo Crown of Thorns, cui dichiaratamente Beauvoir e Free si riallacciano, questo progetto appare complessivamente meno groovy e hard. Lì c’erano più sangue e muscoli, qui forse due anime melodiche ingentilite dallo scorrere del tempo e dalla maturità.