Recensione: An Absence of Empathy

Di Riccardo Angelini - 2 Ottobre 2006 - 0:00
An Absence of Empathy
Band: Frameshift
Etichetta:
Genere:
Anno: 2005
Nazione:
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80

Henning Pauly: bisognerebbe scoprire che cosa mangia questo ragazzo, per riuscire a tener dietro a tanti progetti tutti in una volta. Dal 2003 a oggi, il buon Henning ha dato alle stampe un album coi Chain (2004), due album con i Frameshift (2003 e 2005) e due album da solista (2005 e 2006) cui va aggiunta un’ulteriore appendice strumentale (2004), per un totale di sei uscite in meno di tre anni. Riuscendo sempre, o perlomeno nella maggior parte dei casi, a mantenersi su standard accettabili, se non addirittura elevati. E non è certo da tutti.

I qui presenti Frameshift rappresentano, tra i tre progetti citati, quello alle orecchie del sottoscritto più gratificante. L’esordio Unweaving the Rainbow aveva offerto una prog band fresca e ricca di idee, forte anche di un James Labrie in grande spolvero che, dopo un periodo di relativo appannamento, aveva infine imbroccato la via della completa redenzione. In questo An Absence of Empathy il trono dell’ugola canadese, su designazione dello stesso James, è ereditato da un certo Sebastian Bach. E qui un punto fondamentale va subito fissato: la prestazione dell’ex-Skid Row è semplicemente da favola, la sua impronta profonda su ogni brano, tanto da bilanciare anche gli occasionali momenti di appannamento compositivo. L’opener Human Grain comincia subito a graffiare, dinamica e accattivante nei suoi repentini cambi di tempo. Convince pure Just One More, anche se il songwriting pare accusare subito una prima, marginale flessione: ma si tratta soltanto del passo indietro che prelude a un poderoso balzo in avanti. L’anthemica Miseducation è infatti pronta a esplodere con i suoi incontenibili refrain, guidati da un Sebastian Bach a dir poco scintillante. A dir poco sontuose le orchestrazioni, ripresentate con successo anche nella solenne Blade, che a giudizio del sottoscritto stravince la palma di miglior brano del disco grazie alle linee vocali al vetriolo, agli arrangiamenti sinfonici di alta scuola e a un coro aulico e maestoso.
Sul versante opposto la penna di Pauly si concede anche divagazioni di gusto più elettronico, che a tratti rischiano anche di appesantire il suono oltremisura. Ma niente paura: se When I Look into My Eyes tende a indulgere un po’ troppo nella sua progressione sintetica, o se l’infida This Is Gonna Hurt lascia abbastanza perplessi sul piano strumentale, ci pensa il solito Bach a risolvere la situazione, con i suoi vocalizzi graffianti e abrasivi che ghermiscono le note come artigli affilati. La prima traccia salta così in un sol passo un paio di grani sulla scala della qualità, e addirittura la seconda per poco non si trasforma in una delle hit del disco, ipnotica e quasi ballabile nel suo incedere cadenzato.
Solo nel caso delle ballad le componenti alchemiche sembrano faticare a reagire, e se la riflessiva What Kind of Animal può comunque concludere degnamente il disco grazie a una solida struttura di base, In an Empty Room suona irrimediabilmente prevedibile e sottotono.

Come è regola quando si parla di Henning Pauly, merita di essere spesa qualche parola anche per i testi. Al pari del predecessore il presente album è un concept, sebbene i brani non siano collegati tra loro da una trama continua. Il tema portante resta tuttavia sempre lo stesso: il viaggio claustrofobico di un uomo nella psiche omicida, alla ricerca del grilletto celato sotto strati di quotidiana ipocrisia, verso la culla dei primordiali istinti di sangue e violenza. Un spedizione che, a giudizio del sottoscritto, trova il proprio apice lirico nella combinazione This Is Gonna Hurt/When I Look into My Eyes, impegnata nel proibitivo confronto con uno degli argomenti più delicati – la tortura. Qui il protagonista si troverà a vestire consecutivamente i panni dell’aguzzino e della sua vittima: sarà allora che si ritroverà a fissare sgomento la scintilla sadica negli occhi del carnefice – i suoi stessi occhi, che poco prima avevano scintillato di piacere al pensiero del sangue versato.

Ma torniamo ora alla musica. Dopo i fuochi d’artificio dell’esordio, l’annuncio di An Absence of Empathy aveva destato grande curiosità in seno alla comunità degli appassionati, e alla sua uscita le aspettative erano comprensibilmente elevate. L’impatto di questo nuovo capitolo non gode dunque di quel fattore sorpresa che aveva contribuito ad alimentare gli entusiasmi ai tempi del suo predecessore, probabilmente superiore, seppur di poco, per la qualità e l’omogeneità del songwriting. Ma un nutrita schiera di brani vincenti – forgiati da una stupefacente lega di progressive metal, elettronica e sinfonia – condotta, ripetiamolo ancora una volta, da un Sebastian Bach senza confini, fanno della seconda creatura dei Frameshift un appuntamento da non perdere per ogni appassionato di progressive metal.
Sorvolando sullo strascico delle polemiche tra lo stesso Bach e Pauly che sembra allontanare definitivamente le possibilità di una nuova collaborazione tra i due (il pomo della discordia pare identificarsi con la paternità del songwriting), tutto ciò che resta è sperare che questo grande progetto, una delle sorprese più gradite degli ultimi anni, possa un giorno vedere un degno seguito.

Tracklist:
01. Human Grain
02. Just One More
03. Miseducation
04. I Killed You
05. This Is Gonna Hurt
06. Push The Button
07. In An Empty Room
08. Outcast
09. Blade
10. How Long Can I Resist
11. When I Look Into My Eyes
12. What Kind Of Animal

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