Recensione: Anarchy & Unity
Sicurezza certificata e presenza costante: evidente come quello dei Vega sia un percorso destinato a durare ancora a lungo.
Il merito è senza dubbio degli esiti di una discografia dai risvolti sempre positivi e forieri di buone soluzioni musicali, costruite attorno ad una miscela melodica che prendendo spunto dai fondamentali Def Leppard è riuscita a cucire un ponte con il presente, attualizzando un sound contemporaneo e vintage al medesimo tempo.
Un’operazione che il buon Nick Workman aveva in parte tentato agli esordi con i suoi Kick, salvo poi riuscire compiutamente nell’intento solo dopo aver incontrato i fratelli Martin, buoni musicisti e grandi maestri di songwriting.
Una “tombola” che ha portato con se una striscia di sei album – tutti tra il buono e l’eccellente – cui va ad aggiungersi ora “Anarchy & Unity“, nuovo capitolo che esce a distanza di poco più di un anno dal precedente “Grit Your Teeth“.
Uno stacanovismo da studio dovuto, come facile intuire, ai riflessi da pandemia: con l’attività live sospesa a tempo indeterminato, l’unico modo valido per impiegare le energie è stato, evidentemente, quello di comporre nuova musica.
Dodici canzoni che tuttavia, pur mantenendo intatto l’elevato appeal della proposta made in Vega, sembrano per una volta non focalizzare appieno l’obiettivo.
Sorpresa. E per una volta non esattamente buona: a tratti l’impressione è più quella di una collezione di b-sides che non di un vero e proprio “album”, fatto, pensato, costruito per lasciare ancora una volta il segno.
Troppi filler, troppi passaggi magari gradevoli – come sempre – ma non propriamente incisivi o destinati a durare nella memoria. Melodie “normali”, ritornelli un po’ standardizzati.
Ed una reiterata sensazione di inane vacuità che è davvero raro trovare in un disco dei Vega.
In un complesso “medio”, o come potrebbe definire un buon amico che va per le spicce, “senza infamia e senza lode“, non sono nemmeno molti i brani che spiccano per prestanza, richiamando alla mente la straordinaria abilità per le armonie di facile presa cui Workman ed i fratelli Martin ci hanno abituati.
Meritano in tal senso la proverbiale menzione d’onore le riuscite “Beautiful Lie“, “Sooner or Later”, “Ain’t Who I Am” e “Welcome to Wherever”, tracce esuberanti che aiutano il disco ad esordire al meglio (non a caso tutti pezzi posti in apertura), in virtù dei classici ritornelli pieni e vitali, dei tipici cori orecchiabili ed in generale di tutti quegli ingredienti che hanno sin qui reso la proposta dei Vega impeccabile e riuscita.
Elementi che tuttavia bisognerà attendere sino alla fine dell’album per sentire riproposti nuovamente, nella gioiosa e scintillante “2Die4”, candidata a miglior pezzo del cd.
In mezzo, parecchi passaggi che pur se ben ascoltabili si dimenticano in fretta e non contribuiscono a mettere “Anarchy & Unity” allo stesso livello delle uscite migliori della band britannica.
Detto di un suono un po’ più ruvido e guitar oriented del solito, e dei cambi di formazione (entrano Billy Taylor alle chiarre e Pete Newdeck alla batteria), il nuovo Vega è a nostro avviso un album interlocutorio.
Che offre qualche spunto interessante ma non va a colpire nel segno come molti dei suoi predecessori.
Evidente e percepibile in fondo, come le composizioni siano nate in un contesto diverso dal solito: non già per ispirazione spontanea, ma quasi forzate in un ambito in cui non c’era molto altro da fare pur di non stare con le mani in mano.
Si ascoltano sempre volentieri. Però…
Ora ci vuole una pausa ed un po’ di sana attività live per rinfrancare lo spirito, ossigenare il songwriting e, soprattutto, rinverdire l’estro creativo.
Quello che, come da copione, se messo troppo sotto pressione rischia di inaridirsi e divenire sterile.