Recensione: Anathema
80
È finito, non adesso anzi già da qualche anno, l’isolamento del Giappone quale produttore interno di band dedite al metal, spesso e volentieri mere imitazioni delle formazioni più note in ambito internazionale.
Ci sono le Baby Metal, le Lovebites, i Blood Stain Child, fra i tanti in gradi di competere ad armi pari con il Resto del Mondo.
Ci sono i Desecravity.
Desecravity che, al contrario di molti altri, hanno scelto una strada ostica e ricca di insidie, per cercare la loro visibilità: il technical death metal. Nati nel 2007, il neonato “Anathema” è il loro terzo full-length, che segue a distanza “Implicit Obedience” (2012) e “Orphic Signs (2014)”. Già questo può essere un indizio sulla loro elevata qualità tecnico-artistica, in quanto in possesso di una certa esperienza in materia di produzione discografica; peraltro realizzata con la Willowtip Records, etichetta specializzata dalle ottime credenziali in materia dei requisiti che devono possedere i gruppi facenti parte del suo roster.
Agli ensemble del Sol Levante si è sempre rimarcato il fatto, seguendo il discorso iniziale, che fossero degli eccellenti esecutori, dotati di talento esecutivo eccelso ma povero di contenuti originali. Il che apparentemente potrebbe apparire valido anche per i Nostri, se non fosse che il genere da essi scelto presenta dei dettami stilisti piuttosto ferrei, dai quali è impossibile uscire senza cambiare volto. Ma, ciò, non accade. Comunque.
L’intro orchestrale ‘Aeon and Ashes’ prepara le orecchie al furibondo attacco frontale di ‘Impure Confrontation’ arzigogolata creatura che si avvolge al cervello per premere con insistenza e, come si poteva intuire, mediante tecnica strumentale esemplare. Il quartetto di Tokyo, tuttavia, non si lascia intrappolare dalle sue stesse mani. Il suo stile è adulto, maturo, sicuramente indicativo di una forte personalità che si percepisce continuamente, lungo l’arco che congiunge la stessa ‘Aeon and Ashes’ a ‘Beheaded White Queen’. Le incredibili divagazioni dissonanti delle chitarre manovrate da Yujiro Suzuki e Yuya Takeda non producono tonnellate di note fini a se stesse, bensì camminano a fianco a fianco con il formato-canzone del rock. Circostanza, questa, che mette implicitamente ordine alla spaventosa mitragliata di riff che sommergono l’ascoltatore. Song come ‘Ominous Harbinger’, per esempio, sono uno sfascio assoluto, in termini di aggressività e brutalità; senza entrare nemmeno per un secondo nel campo del brutal death metal, appunto, che è altra cosa rispetto a quanto proposto nel platter.
Lo spaventoso drumming di Yuichi Kudo è un’altra grande conferma di perfetta esecuzione, tormentato continuamente da furibondi cambi di tempo sconfinanti spesso e volentieri nelle nebbie dei blast-beats, ove tutto diviene rarefatto, almeno in termini di resistenza mentale. Anche in questi frangenti, la bravura dei Desecravity è tale che non si perde nemmeno un’oncia di potenza. Il muro di suono eretto non presenta né crepe né geometrie deboli dal punto di vista strutturale. L’incipit della mostruosa ‘Deprivation of Liberty’ presenta qualche istante di melodiosità (sic!), poi travolto degli accordi arcigni e disarmonici di una coppia d’ascia che non è seconda a nessuno, in termini sia di inventività sia, ovviamente, di restituzione sonora. Il rifferama stordisce letteralmente chi ascolta, travolgendolo con una varietà che è caleidoscopica, molteplice nonché rapidamente mutevole.
Rifferama che rappresenta l’elemento sui cui il combo nipponico poggia le basi della propria architettura musicale. Il basso di Daisuke Ichiboshi, difatti – pur essendo anch’esso da antologia della padronanza assoluta (‘Bloodthirsty Brutes’) – , evita di… andare per i fatti suoi, corroborando al contrario il lavoro delle sei corde rendendolo possente, monumentale, titanico. Da apprezzare, pure, la regolarità del rabbioso, roco growling di Suzuki, rappresentativo di un classico binomio cantante/chitarrista esente da difetti. Da menzionare, ancora, gli schiaffoni in piena faccia tirati dalla tentacolare ‘Secret Disloyalty’.
Ma il pregio vero di “Anathema“ è che, iterando gli ascolti, non dà adito a noia. Assolutamente. Anzi, è vero il contrario: concentrandosi più volte sulle spire vorticose dei brani, si scoprono sempre particolari nascosti, passaggi iperbolici; il tutto, è bene evidenziarlo ancora una volta, racchiuso in pezzi dall’ineccepibile intelligibilità e comprensione. Anche per coloro che non sono fan accaniti del technical death metal.
Bravissimi. In tutto e per tutto.
Daniele “dani66” D’Adamo