Recensione: Anatolia

Di Elisa Tonini - 19 Ottobre 2017 - 8:00
Anatolia
Band: Mezarkabul
Etichetta:
Genere: Folk - Viking 
Anno: 1997
Nazione:
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85

Nel 1987 in Turchia due amici corrispondenti al nome di Hakan Utangaç (chitarra/voce) e Cenk Ünnü (batteria) si incontrarono e decisero di chiamarsi Pentagram. Ai due musicisti lo stesso anno si aggiunse Tarkan Gözübüyük (basso) ed il nucleo dei Pentagram fu completo. Da allora i Pentagram non si sono mai fermati. Il loro album omonimo, uscito nel 1990, è stato la sveglia per la scena metal turca e la band divenne presto un fenomeno nazionale. Il debut ed il secondo lavoro intitolato Trail Blazer (1992) sono dischi dalle sonorità thrash metal, ma mentre il primo era strumentalmente una velocissima scheggia dal sound grezzo, Trail Blazer migliora la produzione ed elabora il sound, nel quale molto limitatamente fanno capolino le melodie mediorientali. Con il terzo album Anatolia (1997) la band ha cambiato nettamente direzione aumentando notevolmente la complessità dal punto di vista strutturale ed amplificando notevolmente la componente etnica. Siccome al di fuori della Turchia i Pentagram divennero successivamente noti come Mezarkabul (“accettando la tomba”, “ingresso della tomba”), anche per non confondersi con i Pentagram americani, scelgo di riferirmi ai Pentagram turchi col nome Mezarkabul. Andiamo ora al full-lenght in questione, Anatolia appunto.
 
In una complessa struttura di derivazione progressive Anatolia combina una torva base heavy/power metal, corposo doom e qualche “retaggio” thrash con il patrimonio musicale anatolico e mesopotamico, creando un magma strumentale incandescente, sognante ed etereo al tempo stesso. La componente folk oltre che dalle tastiere è talvolta enfatizzata da vari strumenti tradizionali quali bağlama, bendir, darbuka, ney e zil (cimbalini a dita). Nelle canzoni viene inoltre fatto un uso sapiente dei cori, scelta stilistica che enfatizza la componente epica. Nel complesso “tappeto” strumentale si distende l’appassionata, melodiosa e potente voce di Murat Ilkan, una sorta di “incontro” timbrico e stilistico tra Bruce Disckinson (per teatralità ed animo ruggente), Johan Längqvist (per il trovarsi a suo agio su tonalità  profonde e oscure) e quella di James Labrie (per l’aria innocente e per un lato romantico). Oscillando agilmente e fluidamente tra toni bassi ed alti, Murat dona un’animo tagliente alle tracce ed un’intensità all’occorrenza drammatica o serena.

La title-track Anatolia e Dark Is The Sunlight danzano in un vorticoso intreccio di chitarre doom ma con stati d’animo diversi. La title-track volteggia in un sensuale bilico tra la solarità ed il dramma, tra la luce ed il buio, tra la pace e la furia incessante, in un turbinio di cori dall’aria solenne in cui spicca l’acuta ed operistica voce di Sertab Erener (una delle pop star turche più famose). Dark Is The Sunlight è invece un condensato di atmosfere tetre, apocalittiche, “smorzate” dal senso epico donato dalla voce di Murat.
1,000 in the Eastland vivacizza i danzanti ritmi vorticosi con un’energia heavy/power aggressiva, battagliera ed orgogliosa, a tratti marziale ed aggiunge un pizzico di malinconia con dei tocchi gothic metal. 1,000 in the Eastland insieme alla title-track è dedicata a Ümit Yılbar, chitarrista della band morto nel 1993 ucciso dai terroristi mentre era in servizio nell’esercito.
Gündüz Gece è una cover di Âşık Veysel Şatıroğlu, ashik (cantante che accompagna le canzoni suonando il bağlama), poeta e cantautore turco. La versione dei Mezarkabul è intrisa di un’aria notturna e misteriosa, sapientemente equilibrata tra slancio epico heavy/power, scintillanti velature gotiche e brevi ed agili tocchi che esaltano e vivacizzano le melodie folk. Quella dei Mezarkabul è una cover molto ben riuscita, infusa del loro inconfondibile tocco personale. 

Stand To Fall,  Give Me Something To Kill The Pain e Fall Of A Hero sono canzoni che si fanno notare per la loro epicità marcata, enfatizzata da riff heavy/power e per un approccio molto diretto ed istintivo senza però dimenticare uno stile di fondo estremamente complesso e ritmicamente vario. In tutte e tre le canzoni c’è una decadente sensibilità gothic metal, specialmente nella “piovosa” Fall Of A Hero, mentre Stand To Fall più di tutte e tre le tracce è molto vicina a quel thrash metal che ne fa un brano in bilico tra la disperazione ed il coraggio ottimista. Give Me Something To Kill The Pain coinvolge invece con una volteggiante e magnetica epicità doom.
Welcome The End  ed  On The Run in particolar modo presentano forti rimandi al thrash metal degli esordi, ma mentre Welcome The End poggia su possente ed avvincente gusto melodico impreziosito da virtuosi assoli, in On The Run domina la componente thrash e riduce quella epica. L’anima folk è sempre presente, tuttavia nella “fuggitiva” On The Run viene messa in secondo piano a favore di un’atmosfera ansiosa, un’aria gelida ed industriale accentuata dal “meccanico” cantato filtrato e da un senso generale un po’ caotico, disordinato. Per questa sensazione di disordine On The Run è forse il punto debole di Anatolia, anche se non è un brutto brano. Il momento migliore di On The Run è la breve parte più folk tradizionale scandita da marziali e potenti percussioni.
Time è l’unico brano del disco totalmente strumentale. Le ardenti ed affilate chitarre percorrono indistrurbate la composizione intrecciandosi con le leggiadre melodie folk e creando così un “mix” estremamente fluido ed affascinante.
In Behind The Veil più di tutte le altre tracce di Anatolia prevale una struttura progressive metal pervasa da un animo gothic introspettivo, misterioso e, contemporaneamente, da una buona dose di un istintivo entusiasmo epico.
La conclusiva Sonsuz  è l’unica ballad del disco e, insieme a Gündüz Gece ed alla title-track, è l’unica canzone ad essere cantata in turco. Sonsuz è una toccante e soave ballata dal sapore acustico e dai caldi tocchi chitarristici dall’aria blues.

 
In Anatolia le influenze del progressive rock degli anni ’70 e  del metal americano ed europeo (fra cui “echi” dei Savatage, Black Sabbath e Metallica) sono “al servizio” del bagaglio culturale e dell’autentica personalità dei Mezarkabul. In Anatolia si respira la Turchia dei suoi paesaggi, dei suoi ambienti rurali ed urbani, vi è un’incontro tra l’antico ed il moderno. L’ispirazione compositiva è ai vertici e Murat Ilkan si dimostra tra le migliori voci metal turche e non solo. Come detto inizialmente, già nel 1992 con Trail Blazer i Mezarkabul introdussero nella loro musica elementi mediorientali, uno stadio decisamente “embrionale” di quello che si sarebbe poi manifestato potentemente in Anatolia. Negli anni ’90 fra gli artisti che si affiancavano ai Mezarkabul nell’introdurre melodie mediorientali figuravano gli israeliani Orphaned Land (con Sahara e El Norra Alila) e Melechesh (con As Jerusalem Burns…Al’Intisar), band che in quel periodo dovevano ancora rilasciare quei capolavori che li avrebbero resi ancora più noti (Mabool e The Never Ending Way of ORwarriOR​ per gli Orphaned Land ed Emissaries e The Epigenesis per i Melechesh), mentre Anatolia dei Mezarkabul è un disco maturo. Anatolia è un tassello importante allo sviluppo del folk metal, promuovendo l’Oriental Metal nelle sue infinite “basi” del metal (heavy, prog metal, power, black, death e quant’altro). L’unica vera “pecca” che si potrebbe muovere ad Anatolia è il fatto che non sia stato cantato in toto in lingua turca (cantato interamente in lingua turca è il loro album Bir del 2002). L’uso esclusivo di tale idioma avrebbe aumentato ulteriormente il suo (già grandissimo) fascino. Anatolia è consigliato a chi ama il folk metal ed agli ascoltatori mentalmente aperti di heavy metal e power metal.
 
Elisa “SoulMysteries” Tonini

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