Recensione: Ancient Cults Supremacy
I piemontesi Mind Snare fanno parte di quella cerchia di band leggendarie che hanno contribuito non solo a gettare le fondamenta del death metal italiano, ma che, con umiltà e perseveranza, hanno continuato imperterrite a tenere alta la bandiera del genere anche negli anni più difficili, quando ancora i fasti internazionali dei vari Fleshgod Apocalypse e Hour Of Penance erano lontani. Al di là dei più celebri Sadist e Necrodeath, è doveroso ricordare in questo senso anche i vari Natron, Resurrecturis, Delirium X Tremens, Gory Blister, Distruzione che, indomiti e orgogliosi, persistono nel loro contesto underground e senza compromessi.
Con il primo nucleo della band che si forma nel lontano 1989, i Mind Snare costruiscono la loro discografia attorno a tre album oltre ad una miriade tra demo ed EP. Il nuovo album Ancient Cults Supremacy su The Spew Records (costola estrema della Punishment 18) va salutato come il ritorno del death metal brutale di un tempo, lontano dalle produzioni più patinate, dai trigger di doppia cassa portati all’eccesso, dalle contaminazioni à la Behemoth e dai breakdown più banali. Otto tracce per meno di mezz’ora di brutalità, da ascoltare tutto d’un fiato, senza ricercare virtuosismi o tecnicismi. Le influenze sono le più classiche possibili (Morbid Angel più grezzi e primi Cannibal Corpse su tutti), le ritmiche serrate, i riff istintivi. Immaginate uno Show No Mercy portato all’estremo ibridato con le contorsioni più basiche della band di Trey Azagthoth e avrete a grandi linee lo stile dei Mind Snare, che, sia chiaro, non raggiungono i livelli qualitativi e compositivi delle due band usate come riferimento. Death primordiale, molto “fisico”, eppure non ignorante, come se la band piemontese puntasse ad un attacco brutale tutto sommato consapevole e mirato, lontano da certe esagerazioni grind, ad esempio. Questo lo si percepisce soprattutto dalla scelta dei cambi di tempo all’interno dei pezzi, per lo più ben calibrati.
Al di là delle influenze e dei paragoni che lasciano il tempo che trovano, Ancient Cults Supremacy è un lavoro tutto d’un pezzo, molto omogeneo tra un brano e l’altro. E se l’opener Draining Faith forse eccede nella sua chiusura su se stessa (difetto ahimé abbastanza costante in tutto il lavoro), già la successiva Entrenched In Agony, che tocca il tema della Prima Guerra Mondiale con particolare trasporto, mostra maggiori segni di apertura e respiro, come nel break centrale a sostegno del chorus, ben sottolineato da un riff particolarmente incisivo e da un abbozzo di solista – appunto – di slayeriana memoria. Inganna Decadent Bearer Of All Disease, che dopo un prologo decisamente rallentato, si unisce anch’essa alla brutalità generale e diffusa del lavoro, con sfuriate continue di ritmiche sostenute, così come la successiva Smuggled In The Underworld. E, tutto sommato, l’approfondimento sui singoli pezzi potrebbe quasi fermarsi qui, perché proseguendo nell’ascolto, si rilevano le stesse caratteristiche: velocità, cattiveria e quell’isterismo del rifferama che proviene direttamente dal thrash più bestiale degli anni ’80 e che piace soprattutto tra i più attempati extreme metallers (Deceived Humanity è un buon esempio in questo senso ed è forse uno dei picchi dell’album). Si arriva alla fine e dopo una Mutilated Meaning Of Life, con echi di Deicide soprattutto nei vocalizzi, ci si rende conto che quello che forse manca è un maggiore utilizzo della fase solista della sei corde: questo accade apprezzando la conclusiva Unleashed Hate Spreading, dove la chitarra solista del mastermind Chris Benso fa finalmente capolino, conferendo al pezzo maggiore dinamica, quella che non mancava nel precedente EP Black Crystal Sun, ad esempio (ad onor di cronaca, anch’esso di certo non ricco di chissà quali assoli, per dirla tutta).
Questo è quanto: ventisei minuti di death brutale e irriducibile; sta proprio qui il principale pregio di Ancient Cults Supremacy, che, paradossalmente, è anche il suo primario difetto: l’essere davvero un lavoro per pochi, anche all’interno della scena estrema. Così radicale da essere elitario, così radicale da rischiare di passare inosservato.
Vittorio “Vittorio” Cafiero