Recensione: Ancient Dreams

Di SteelGuardian - 30 Aprile 2006 - 0:00
Ancient Dreams
Band: Candlemass
Etichetta:
Genere:
Anno: 1988
Nazione:
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88

Svezia. Anno 1986. Viene edificato il primo, oscuro e grandioso monumento del Doom Metal: quell’ “Epicus Doomicus Metallicus” che ha visto la luce (che paradosso) in un piccolo studio di registrazione, grazie ad un gruppo di giovani musicisti con la passione per i Black Sabbath e le sonorità del Metallo più cupo… i Candlemass.

Anno 1987. Guidati dal bassista e mente del gruppo Leif Edling, dopo una serie di cambi di line up, la band dà vita ad un ulteriore capolavoro: “Nightfall”. Il sound subisce alcune modifiche grazie ad un affinamento della tecnica e del songwriting, ma l’essenza non viene snaturata.
Ed anche “Nightfall” entra di diritto nella storia del Doom e del Metal tutto.
A seguire di due capolavori di questo calibro, un clima di forti aspettative accompagna la band che sta componendo il nuovo lavoro.
Anno 1988. Si compie la terza fatica dei Candlemass, “Ancient Dreams”.

L’album, nel suo complesso, si colloca sulla stessa lunghezza d’onda del sound di Nightfall, quello più caratteristico per la band, quello che li definisce meglio: una forma di Heavy Metal molto pesante, dall’andamento prevalentemente lento, chitarre molto distorte che generano ritmiche rocciose e melodie evocative, basso e batteria diretti e concreti come vuole la tradizione del più puro Epic/Doom Metal… su tutto una prestazione vocale superlativa, potente e “teatrale”, da parte di quel singer certo fuori dal comune che è Messiah Marcolin, col suo famoso cantato di stampo lirico. Dopo questa panoramica, andiamo ora ad esaminare brano per brano quest’album.

Tutto ha inizio con “Mirror Mirror”, ed un evocativo intro a base di cori e doppia cassa ci accompagna verso il brano vero e proprio: un pezzo dall’andamento abbastanza sostenuto per gli standard a cui ci hanno abituato i Candlemass, con un vari riff particolarmente azzeccati, un ritornello coinvolgente ed un assolo da manuale. Un brano praticamente perfetto, un classico dei live della band.

Si prosegue con “A Cry From The Crypt”, dai riff sabbathiani ora claustrofobici ora compatti, con diversi cambi di andamento, per un brano molto vario. Qui Messiah Marcolin si produce in una prova particolarmente positiva. Uno dei migliori brani dell’album.

Un evocativo riff ci introduce ad un altro degli episodi più convincenti dell’intero lotto: “Darkness In Paradise” non ha un tassello fuori posto, è maestosa ed opprimente al tempo stesso, bella più che mai nei suoi passaggi in cui la voce del singer recita il testo accompagnato solo dalla batteria e da alcuni bruschi, ma emozionanti, stacchi delle chitarre.
Questo stupendo brano tra l’altro introduce il concept sviluppato nell’album successivo della band, “Tales Of Creation”. Leggete le lyrics, ne vale davvero la pena.

La successiva “Incarnation Of Evil” si rivela essere il brano meno riuscito dell’album. Va detto però che essa non è che una cover di un vecchio pezzo dei Nemesis, la precedente band di Leif Edling, aggiunta sull’album su richiesta di Messiah Marcolin.
Il brano non è pessimo, certo ma dalla semplicità dei riff e delle linee vocali (interpretate comunque magistralmente dal singer) risulta chiara l’inesperienza della giovanissima band che compose il brano anni prima.

Dopo questo mezzo passo falso, la band si riprende del tutto con la splendida “Bearer Of Pain”. Questo componimento si potrebbe considerare a pieno titolo un classico della band: i riff sono incalzanti nella strofa e solenni sul ritornello; il cantato raggiunge qui ad uno dei suoi picchi più alti, sia come qualità sia come tonalità delle note che esplodono dall’ugola di Marcolin; il drumming di Jan Lindh, come sempre “inesorabile”, sostiene il tutto.
Verso la metà del pezzo si trova un passaggio dai ritmi ancor più cadenzati del normale e quasi “cantilenato”, nel quale Lars Johansson sviluppa poi un bell’assolo prolungato, e che ci accompagna poi ad un finale nuovamente heavy.

La title track, “Ancient Dreams”, è un brano sicuramente particolare. Strutturalmente risulta essere abbastanza semplice, ma da un certo punto di vista è molto meno “easy-listening” degli altri pezzi.
Tornando alla struttura della song, i riff e le linee vocali nelle strofe viaggiano sulle stesse note, alzandosi di tonalità mano a mano, per poi approdare ad un ritornello del quale personalmente sono innamorato, per musica e parole:

Chase the horizons, catch the illusion,
remember the child within…
There’s no tomorrow, just sadness and sorrow,
hold on to the Ancient Dreams…

Questo brano, nonostante la (apparente) semplicità, nonostante il testo dalle tematiche (apparentemente) “fantasy”, è un concentrato di sentimento di tale intensità che, una volta assimilato, conduce le emozioni dell’ascoltatore in un profondo viaggio onirico, ma reale al tempo stesso. A questo componimento tra l’altro si rifà la bellissima copertina dell’album, “Youth”, un dipinto di Thomas Cole.

Il brano successivo è The Bells Of Acheron, un veloce un up-tempo compatto, con un ritornello diretto e coinvolgente e con un feeling oscuro e “apocalittico”. Un gran pezzo da riproporre dal vivo.

“Epistle No.81” è una song ispirata ad un brano composto per un funerale da Carl Michael Bellman, a detta di Edling “lo Shakespeare svedese”. Il bassista e compositore della band afferma di amare particolarmente Epistle No.81, ma non la loro “versione blasfema”.
Questo brano risulta comunque ben riuscito, sicuramente molto doom and gloom.

L’album si chiude con un medley di alcune songs dei Black Sabbath, un tributo questo immancabile per una band come i Candlemass.

Come giudicare questo “Ancient Dreams”, a volte considerato (a mio parere a torto) l’album meno riuscito di quei gloriosi primi anni dei Candlemass?

La qualità dei brani è molto alta, tranne una caduta di tono con “Incarnation Of Evil”; il livello tecnico e compositivo della band si assesta ormai su livelli egregi. Inoltre questo disco è molto “sentito” emotivamente, e basta leggere testi come quelli di “Darkness In Paradise”, “Ancient Dreams” o “Bearer Of Pain” per comprenderlo.

Tuttavia il difetto principale dell’album è la produzione, forse troppo leggera, non certo all’altezza della qualità e della carica dei brani.
In conclusione ci troviamo davanti ad un grande album, suonato e composto magistralmente, interpretato con un sentimento davvero profondo.

L’ennesimo masterpiece generato da questa band leggendaria, che è entrata di diritto nella storia del Metallo Pesante.
…Doom or Be Doomed…

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