Recensione: …and Again into the Light
Uno dei fattori che contribuiscono al pressoché costante rinnovamento del Black Metal a più di trent’anni dalla Second Wave of Black Metal è la sua capacità, decisamente maggiore di quella evidenziata da altre correnti, di ibridarsi con le tradizioni musicali e culturali delle terre natie dei propri interpreti. In Europa tra gli esempi più illustri di questo approccio al genere sono da annoverare gli ucraini Drudkh, gli irlandesi Primordial, gli inglesi Winterfylleth e i compianti romeni Negură Bunget. Anche la scuola statunitense non è da meno, con i Wolves in the Throne Room, i Panopticon e gli ormai inattivi Agalloch, con sonorità e liriche che restituiscono con incredibile potenza le suggestioni indotte dalla maestosità dei paesaggi e della dirompente natura nordamericana.
Tra i gruppi d’oltreoceano, i Panopticon sono probabilmente i più inclini al recupero delle musicalità tradizionali e alla loro integrazione in un Black Metal che infatti incorpora, oltre al Post Metal, elementi Folk e Bluegrass. Forte di una produzione impressionante, con il rilascio – in meno di quindici anni – di qualcosa come 9 full lenght, circa altrettanti split e un paio di EP, Austin L. Lunn, polistrumentista originario di Memphis (ora residente nel Minnesota) e unico uomo dietro al progetto, è tornato lo scorso maggio con il nuovo “…and Again into the Light”, uscito su Bindrune Recordings. Anche in questa occasione Lunn si è occupato in totale autonomia della composizione, dell’esecuzione delle parti strumentali e vocali e della registrazione, con i soli contribuiti di Charlie Anderson e Patrick Urban, rispettivamente al violino e al violoncello.
Anche la produzione è in continuità con il passato: essenziale, pulita nei momenti acustici, decisamente ruvida in quelli aggressivi e abile nello stratificare il suono, ponendone le componenti su livelli diversi a seconda delle specifiche esigenze di ogni traccia. Altro elemento in linea con il passato è il soggetto paesaggistico ripreso dall’artwork: un prato fiorito e illuminato da raggi solari che sembra emergere da una zona d’ombra indefinita, a rappresentare quel ritorno alla luce che campeggia in copertina come titolo del disco.
La title track, un pezzo di introspettivo Folk americano, introduce l’album riprendendo il discorso proprio da dove si era interrotto nella seconda parte del precedente “The Scars of Man on the Once Nameless Wilderness” del 2018. Anche la sezione iniziale della successiva “Dead Loons” rimane ancorata a questo stile, tanto da instillare l’idea che potremmo trovarci di fronte a un altro lavoro semiacustico. Il riff distorto e cadenzato che fa il suo ingresso intorno al terzo minuto sgombra il campo dai dubbi, portando il brano a evolversi in Black furioso e tirato, ma non privo di una certa componente melodica.
I delicati archi che aprono “Rope Burn Exit”, che tornano a riproporsi anche quando il brano assume un’andatura selvaggia, creano un riuscito contrasto con la brutalità della sezione ritmica, delle chitarre e della voce. Si prosegue, senza soluzione di continuità, con “A Snowless Winter” che, decisamente heavy ma dalle pronunciate connotazioni atmosferiche, si rifà pienamente al back catalogue del gruppo. Moth Eaten Soul è caotica e senza compromessi. La melodia che, in forme e quantità diverse, caratterizza gli episodi precedenti è qui accantonata in favore di soluzioni estreme edificate su un riffing che non fa prigionieri. Anche la decelerazione a metà della traccia non determina alcun alleggerimento, essendo ai limiti del Death/Doom.
“As Golden Laughter Echoes (Reva’s Song)”, un calmo interludio strumentale, concede una breve tregua ai timpani e alla psiche dell’ascoltatore. Si riprende con “The Embers at Dawn” che mette in gioco, a mo’ di summa, i diversi riferimenti stilistici della band: dal Folk iniziale a un aggraziato Post Rock di scuola Sólstafir, da un Black Metal aggressivo alle contaminazioni Ambient del finale. Dopo una partenza intransigente, la closer “Know Hope” assume le forme di un Post Rock trasognante che, in un graduale crescendo di intensità, prepara il campo all’assalto finale che sfuma nelle note degli archi su cui si chiude il disco.
Oltre a confermare lo status raggiunto dai Panopticon, annoverabili tra gli interpreti di maggiore spicco del Black a stelle e strisce, “…and Again into the Light” evidenzia il raggiungimento di un’accresciuta maturità compositiva da parte di Lunn. Questa emerge, soprattutto, dalla capacità di condensare le idee: senza rinunciare a nessuna delle sfumature presenti nel precedente doppio album, ma anzi aggiungendone di nuove, questo ultimo lavoro, seppur con una durata di circa 71 minuti, risulta significativamente più breve e accessibile del suo predecessore. In definitiva “…and Again into the Light” si pone senza alcun dubbio tra le migliori uscite di Metal estremo di questa prima parte dell’anno.