Recensione: And the Other That Was a Machine

Di Emanuele Calderone - 8 Maggio 2011 - 0:00
And the Other That Was a Machine
Band: Rainroom
Etichetta:
Genere:
Anno: 2011
Nazione:
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77

Nati a Espoo, città natale di celebri band quali Children of Bodom, Lordi e Norther, i Rainroom sono una realtà relativamente giovane, nata in Finlandia nel 2003 grazie all’idea del chitarrista/cantante JP Eloranta e Jere Ralli, in seguito allo scioglimento dei Dewian.
Al fianco dei due musicisti troviamo Oskari Hakala-Rahko al basso e Jelle Van Der Beck alla batteria, già in forza a Scrotum e Fiend.

I quattro si affacciano per la prima volta sul mercato discografico nel 2006 con il debut “Netherself” seguito, dodici mesi dopo, dall’ep “Monochrome of Feathers”. Ben quattro anni abbiamo dovuto aspettare perché i nostri tornassero a calcare le scene con il nuovo “And the Other that Was a Machine”, ma bisogna ammettere che il tempo ha portato buone idee ai ragazzi.
Quest’ultimo parto infatti, pur proseguendo a grandi linee il discorso già intrapreso con le precedenti release, suona decisamente più maturo e raffinato, risultando estremamente piacevole e accattivante, grazie ad un songwriting solido e appassionante come mai prima d’ora.
Il genere proposto dal combo si attesta su sonorità a cavallo tra il progressive death metal di casa Opeth, un certo death/doom nord europeo e, non ultime, alcune divagazioni psichedeliche. Il risultato, come detto in precedenza, colpisce nel segno, grazie anche a una ricerca in chiave melodica eccezionalmente efficace, che rende l’album fruibile a diverse tipologie di ascoltatori. I Rainroom riescono nel difficile compito di far convivere armoniosamente lunghe sezioni strumentali, nelle quali viene messa in evidenza l’ottima tecnica strumentale posseduta dai membri, con parti più rallentate e dilatate, dalle quali invece emerge l’aspetto più emozionale.

Ad un primo generale ascolto di “And the Other that Was a Machine”, si nota subito come il complesso sia riuscito a migliorare notevolmente sotto tutti i punti di vista: il songwriting, come si diceva, è divenuto più dinamico e in generale più appassionante. Partendo dalle chitarre, che macinano riff taglienti, alternandoli ad assoli fortemente influenzati da Akerfeldt & co., passando per le possenti ritmiche (spesso punto debole di molti gruppo progressive death), sempre puntuali e in grado di conferire dinamicità e spessore, sino ad arrivare al growl di JP Eloranta, tutto sembra essere al suo posto.

L’opera, divisa in cinque capitoli di durata medio-lunga, viene introdotta dai 9 minuti e 30 secondi di “…yea, many machines”. Il brano presenta al suo interno già tutti gli ingredienti che andranno a comporre anche il resto della tracklist: a lunghe sezioni strumentali si affiancano parti cantate, che sottolineano i cambiamenti d’atmosfera.
Ascoltando il pezzo, la mente non può che tornare indietro ai tempi del celebre “Blackwater Park”, sia per le sonorità che per lo sviluppo dello stesso. La track risulta ben bilanciata e coinvolgente, grazie alla giusta dose di emozioni e ricerca di strutture complesse.
Stesso dicasi per il resto delle song: non si notano mai cadute di stile, parti tirate troppo per le lunghe o cali di ispirazione; basterebbe tendere l’orecchio alla progressiva “Loew Mechanism” o ancora a “Steam Conjecture”, con i suoi passaggi doom, per capire che i ragazzi non hanno sbagliato un solo colpo.

Un ulteriore passo avanti è stato fatto anche in tutti quegli aspetti più tecnici, che non riguardano strettamente le composizioni e la prestazione dei componenti della band. Ci stiamo riferendo, naturalmente, al mixing e alla produzione: in entrambi i casi il passo avanti è davvero consistente. I suoni, stavolta, sono ben calibrati senza che nessuno strumento prevarichi sugli altri. Stesso dicasi per la pulizia degli stessi: laddove su “Monochrome of Feathers” e “Netherself” spesso e volentieri gli strumenti suonavano impastati e spesso poco distinguibili, questa volta il tutto risulta eccezionalmente pulito e chiaro.

Naturalmente non ci troviamo davanti ad un capolavoro; “And the Other that Was a Machine”, pur nella sua innegabile bontà, non inventa nulla di nuovo e rischia, purtroppo, di perdersi talvolta nel mare delle buone uscite death di quest’anno. L’unica cosa che manca oggi ai Rainroom è quindi solo la voglia e la determinazione di fare quel piccolo salto che li possa consacrare nuovi portabandiera del genere. La strada imboccata è quella giusta, ora non resta che aspettare il prossimo disco. Bravi.

Emanuele Calderone

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Tracklist:
01- …yea, many machines
02- Abort Engine
03- Loew Mechanism
04- Steam Conjecture
05- Forms and Façades or a Dream of an Omsniscient Automaton

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