Recensione: And Then Came The Monsters
Con “And then came the monsters” si apre il secondo capitolo della storia dei Di’Aul, combo pavese che nell’album di esordio si era fatto conoscere per un orientamento caratterizzato da forti reminescenze “doom-rock” dei 90s.
Il biglietto da visita dell’opener “Saint Vitus” è costituito da un’ouverture demoniaca, che mette i brividi a causa di un riff tanto oscuro quanto penetrante, seguito da un’accoppiata basso/batteria assai possente. La ritmica lenta e pesante, l’impostazione dark, il sound grezzo e cupo, un vocione dai toni aspri conferiscono alla canzone una veste inequivocabilmente e smaccatamente “doom” e si comprende subito quale sia l’atmosfera che ci attende nel resto dell’album.
“Dead love” imprime una decisa accelerata al ritmo. Siamo in presenza di una cavalcata a tinte scure, contraddistinta da sonorità improntate a stilemi che sancirono il successo di più illustri predecessori (Down, Metallica tanto per citare i più rappresentativi). Il guitar solo risulta di ottima fattura e ben si innesta nel contesto generale.
Nella successiva “Damnation” troviamo ruvidi vocalizzi e virtuosismi chitarristici dalla punta aguzza, in stile Zakk Wylde, mentre la base ritmica si erge a protagonista con il sostegno di un tiro micidiale e incessante.
“Full Moon” esordisce con un riffone pesantissimo e darkeggiante, subito sorretto da un timing incalzante e roccioso. La song (inframmezzata da un assolo di ottima tecnica e di gusto classico) si muove agilmente nella nebbia e nell’oscurità con una buona dose di grinta ed energia.
La diabolica “Embrace the swamp” inizia con un sound alla Black Sabbath prima maniera, ma in seguito lascia spazio a suoni più grezzi e metallurgici, con parti vocali volutamente sporche e un rabbioso apporto chitarristico di scuola Wylde.
L’intro di “Raw War” distribuisce mazzate di metallo pesante, cadenzato, tosto e roccioso, con graduale aumento del ritmo fino al momento delle impennate durante lo scatenato guitar solo. In seguito i continui cambi di tempo conferiscono una notevole dinamicità alla canzone, mentre nella seconda parte il tono disperato della voce introduce il ritorno alle cadenze doom della parte iniziale.
“End Times” si presenta con un mid-tempo di estrazione sabbathiana, scandito da spessi riffoni accompagnati da una voce che, inizialmente, appare più pulita e melodica rispetto agli episodi precedenti. Il brano è alquanto variegato, grazie soprattutto a un bridge ben studiato e a un guitar solo che imprime un cambio di ritmo. La canzone (probabilmente il migliore momento del disco) si chiude con una terrificante filastrocca accompagnata da un arpeggio, mentre si ode il soffio del vento: “and here came the monsters that steal your soul away…”.
L’ascolto di questo album ha evidenziato una musica solida e potente, un cantato graffiante e cattivo al punto giusto, una robustezza di suoni di ragguardevole spessore; tali elementi fanno sì che il secondogenito dei Di’Aul si possa annoverare, senza compromessi di sorta, nel filone “doom-rock” tanto caro agli appassionati del genere.
Speriamo, quindi, di poter assistere a esibizioni della band in contesti “live” per vedere confermate le buone sensazioni scaturite da “And Then came the monsters”.
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Il disco è stato registrato presso la Cascina San Colombano da Peter from Fratto Zero and Gandon Lab, mixato e masterizzato presso Jeremy’s Garden. L’artwork e il layout sono a cura di Seba.
Sito ufficiale: www.soundcloud.com/diaul-1
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