Recensione: Anderson Bruford Wakeman Howe
Il fascino e la bellezza nella vastità dell’universo sono rintracciabili in infiniti elementi, ma quasi mai ci si sofferma a pensare a quanto possano esserlo i numeri, soprattutto i numeri “tondi”. Nella cabala ebraica i numeri sono nodali per comprendere i segnali che il mondo indirizza all’uomo, nell’astrologia in molti sono convinti che esista una connessione tra i numeri e i pianeti del sistema solare, in Cina, sin dall’antichità, si pensa che i numeri abbiano una funzione ordinatrice e armonizzante di tutto il mondo vivente, nella docimologia il numero “tondo” (10 o 100) rappresenta il massimo a cui una persona possa ambire con tutti i significati pratici, metaforici e allegorici ad esso collegati. Quindi il numero “tondo”, quello che proietta verso il massimo possibile mescolando cabala, pitagorici, cinesi, smorfia, docimologia e simili, rappresenta una carezzevole alchimia che in pochi, nelle manifestazioni artistiche, hanno raggiunto. Nella musica, per esempio, in molti tendono a questo desiderio, mai davvero estinguibile, e sono rari i casi in cui un album colpisce nel centro questa alchimia e, anche se non dovesse incontrare il proprio gusto, non si può che fare un passo avanti e arrendersi a questa reazione chimico-magica che resta lì, come carburante illimitato, per farlo vivere come capolavoro nelle coordinate del tempo e dello spazio.
Questo è il caso dell’apicale e perfetto album della band dei sogni Anderson Bruford Wakeman Howe (da qui in seguito chiamato ABWH) intitolato, proprio per spazzare via ogni forma di dubbio e confusione, Anderson Bruford Wakeman Howe.
Correva l’anno del Signore 1989, un anno incastonato in quei favolosi anni ’80 in cui dal cinema alla musica c’era una grande vivacità tesa al raggiungimento di risultati che puntavano alla perfezione, si ricordino per il cinema i capolavori L’attimo fuggente, Harry ti presento Sally o Mery per sempre e per la musica, a parte il memorabile concerto dei Pink Floyd a Venezia, si rievochino Disintegration dei The Cure, Apollo di Brian Eno e Doolittle dei Pixies, eppure nell’aria, invisibile aleggiante, era pronto a travolgere per rimanere nella storia della musica, proprio come Marlon Brando in Apocalypse Now che rimane entità svolazzante fino a quando irromperà sulla scena per devastare e rimanerci, il grande capolavoro Anderson Bruford Wakeman Howe. Questo disco prorompe, devasta, ammalia, crea dipendenza, fa crollare quel muro, quello di Berlino cadeva proprio nello stesso anno, oltre il quale la musica, con tutti i possibili corollari, fino a quel momento non si era mai spinta.
Jon Anderson, per niente sazio e mai pieno, decide di dare vita a un progetto tra i più memorabili, in termini di potenzialità e tanto altro, che la musica ricordi; per fare questo richiama gli epurati dei prodromi Yes, Bill Bruford, Rick Wakeman e Stewe Howe e per sostituire il bassista Squire, impegnato nella vecchia formazione, per tenere altissimo il livello della band arruola Tony Levin. Con questi presupposti l’ambizione, apparentemente spocchiosa e presuntuosa di puntare al numero “tondo”, appare potersi concretizzare. Tutto questo, in pieno collegamento ideale, ricorda il regista Blake Edwards che trasforma il numero “tondo” della perfezione nel titolo del suo capolavoro, intitolato appunto 10, dove tutto è da voto massimo.
Quindi, in un contesto in cui tutti camminavano, anche a differenti velocità, loro decidono di galoppare pubblicando questo album che diventa un pilastro fondamentale non solo per la musica perché, ove fosse possibile traslare in altre forme artistiche le loro canzoni, ci troveremmo a guardare delle opere d’arte di livello assoluto. Opere d’arte in musica che riescono a resistere ai colpi inevitabili del tempo, per rimanere in un’immensa dimensione di straordinarietà che trascende la normalità, per approdare a un livello superiore di bellezza e genialità.
Questo album segna un’epoca, resterà per sempre nella storia della musica come un laico messia che funge da guida a tutto quello che nell’arte del pentagramma si farà.
Anderson costruisce una band meravigliosamente forte sul piano della tecnica, delle ispirazioni e del genio, dove il senso dell’organico e dell’amalgama ha un ruolo determinante, dove tutto è messo insieme all’altro alla perfezione, come meglio non si potrebbe e questo aspetto non è stato mai stato esaltato come si dovrebbe. Proprio Anderson, la cui voce celestiale e inconfondibile grazie alla caratteristica musicalità con la quale disegna armonie rinascimentali, si eleva a strumento aggiuntivo per la band.
Ascoltando il disco il rapimento è assicurato, le tipiche aperture musicali schiudono all’ascoltatore nuovi orizzonti in cui spazio e musica si fondono fino a generare un godimento uditivo di massima fattura; i brani sono vari, mai scontati o prevedibili, ed è facile smarrirsi nel labirinto che gli ABWH riescono a tracciare. È facilmente ipotizzabile che altri gruppi, dalle idee presenti in una sola canzone di questo album, avrebbero composto più dischi.
A suggellare l’unicità del disco contribuisce anche il disegnatore della bellissima copertina Roger Dean (autore, tra i tanti, delle copertine dei Gentle Giant, Uriah Heep, Asia e gli stessi Yes e Steve Howe) che per questo lavoro inventò un nuovo font per scrivere, in modo unico, i nomi che compongono il titolo.
È impresa ardua viaggiare tra le note dell’album alla scoperta del punto più bello in assoluto; per esempio in The Meeting (incipit chiaramente plagiato da Gianni Morandi con il brano In Amore), oltre a un testo spirituale bellissimo, si viene rapiti dal duetto pianoforte e voce e da un’atmosfera fiabesca; l’ascolto di Quartet conferisce serenità e benessere e sembra ispirata, per bellezza, varietà, intensità e magia da una qualche divinità e anche qui la religione, nello specifico il rapporto conflittuale tra Anderson e Dio, la fa da padrone; in Teakbois il ritmo sudamericano genera varietà verso un genere che nel disco suona inaspettato, crea meraviglia. Insomma, l’intero lavoro è di livello stupefacente, così come da una formazione del genere è lecito aspettarsi. La chitarra di Steve Howe, chitarrista geniale e a tratti unico (probabilmente poco celebrato), rappresenta una colonna portante di tutto il disco; i lavori che riesce a produrre l’ingegnoso chitarrista inglese sono un tessuto ricamato di pregevole qualità.
Entrando nello specifico del disco, e questa operazione la merita tutta, le danze cominciano con Themes, una suite comprendente Sound, Second Attention e Soul Warrior. L’attacco in sordina di Wakeman e il fill irruento di Bill Bruford segnano da subito il territorio: puro sound prog e poliritmia ampiamente diffusa. Colpisce da subito la presenza al basso di Tony Levin e il groove ipnotico è decisamente il più azzeccato tra i biglietti da visita. Questo brano, che brilla comunque di luce propria, sarà solo un preludio a quanto seguirà.
L’intro di Fist Of Fire è pieno di suspence, le sonorità si fanno misteriose ed eteree. Qui probabilmente si sente forte l’influenza della pregressa collaborazione tra Vangelis e Anderson la cui voce è particolarissima e come sempre duetta con le sessioni dei fiati e le keys di Wakeman, in una sorta di concerto grosso dove il Tutti (inteso come l’organico più grande di un’orchestra) comprende le meravigliose linee di Steve Howe. Questa volta i suoni chitarristici sono un po’ frutto della ricerca sonora del periodo: ricercatissimi, ultracompressi e processati in pieno stile anni ’80, un mix tra il Lukather più sperimentatore e lo stesso Trevor Rabin. Impossibile restare seduti al ritmo tribal cadenzato del brano. Bill Bruford accenna a un groove che è pura calamita, mai crescente eppure così sinuoso ed efficace in questo viaggio incredibile dove il dialogo tra tutti i membri del lotto sembra assolutamente naturale e seducente. Ogni cellula ritmico-melodica ispira la canzone seguente, non importa se chi la propone ha una sei corde tra le mani o un pianoforte ottantotto tasti (esempio nei versi “No, not afraid, Not afraid of this or that, Not afraid”). Un finale magistrale e questa chiusura meriterebbe una citazione all’interno del Piston, il manuale d’armonia tra i più utilizzati.
Un gong epico apre Brother Of Mine e chissà dove condurrà questa intro letteralmente paradisiaca di Anderson. Questa è la seconda suite del disco, dove ascolteremo nell’ordine The Big Dream, Nothing Can Come Between Us e Long Lost Brother Of Mine. Dopo neanche 50 secondi emerge titanico Tony Levin, la classe si spreca e la tecnica non è mai fine a sé stessa. Una ritmica funky fa da pedale e apre al lirismo solista del grande Steve Howe. I versi “In the big dream, We are heroes, We are dreamers of the big dream” sono colmi di malinconia e il brano acquista più teatralità. Se a qualcuno dovesse sembrare retorico il seguente passaggio (da testo) “Just hear your voice, Sing all the songs of the earth, Nothing can come between us, You’re a brother of mine” si ricrederà sicuramente ascoltando l’unisono strappalacrime tra Anderson e Howe (un passaggio che vale tutto il disco) accompagnati dall’ingresso ai tom di Bill Bruford. Qui la pelle d’oca è un passaggio obbligato e si è ancora all’inizio di questi dieci minuti di pura magia. Nella seconda strofa il sempre elegante Steve Howe dà prova di un senso melodico e compositivo fuori dal comune, ma del resto come in ogni passaggio dell’intero platter. Il suo solo, vero e proprio esemplare, viene anticipato da svisi pianistici di prim’ordine e qui rientra il chorus: si è arrivati in Fa minore (modulando dalla precedente tonalità d’impianto in Re minore) per giungere ad un ulteriore solo di Howe, questa volta svisando sulle note del tema iniziale “So giving all the love you have, Never be afraid to show your heart, So giving all the love you have, There is a special reason, A special reason…”. L’ultima danza è Long Lost Brother Of Mine. Un intro maniacalmente prog rappresenta una vera goduria per le orecchie e per la mente. Il metronomo dà un senso di smarrimento, ma è davvero un bel perdersi (e qui ogni riferimento a Giacomo Leopardi è lecito). Il titolo la fa da padrone nelle parti vocali armonizzate, un chorus apparentemente semplice (a differenza della strofa) ma che riserva arrangiamenti stratosferici e in questo frangente Wakeman è il vero motore dell’azione. Domande, risposte, intermezzi tastieristici di gran classe e mai invadenti caratterizzano l’intero brano. A tal proposito un plauso al mixing di Steve Thompson e Michael Barbiero. Comunque non è finita: il finale è struggente dove il sempre presente verso “Lost Brother of Mine” acquista tutt’altro significato con un’ennesima armonizzazione vocale da brividi.
Terminato il viaggio di Brother Of Mine è il momento di Birthright, ovvero “Diritto di nascita”. Ingresso alle piccole percussioni di Anderson seguito da guizzi di chitarra classica di Steve Howe, qui sembra di entrare in una foresta di aborigeni. Da libretto leggiamo: In 1954 the British Government, In order to maintain the balance Of power between East and West, exploded their first atom bomb at Woomera. They failed to contact all of the Aborigine peoples atthe time. The Aborigines still call this “The day of the cloud” come prefazione al testo vero e proprio. Si parla dunque di un argomento delicatissimo, test nucleari condotti in Australia che avevano sconvolto gli schemi di movimento tradizionali e le vite stesse degli aborigeni presenti.
L’amore per gli effetti tribal di Bruford è sempre molto evidente, un groove spoglio ma davvero evocativo accompagna gli intermezzi chitarristici inusuali per Howe. Gain molto elevati di saturazione si alternano alla sopracitata classica in una eterna battaglia tra modernità e tradizione, ma la condanna di Anderson è brutale quando ascoltiamo i versi “This place, this place ain’t big enough for stars and stripes” (Trad: “Questo posto, questo posto non è abbastanza grande per stelle e strisce”).
Incredibilmente commovente è il finale parziale di This place, this place This place is theirs, by their birthright This place, a ribattere costantemente (anche musicalmente) il concetto di “Questo posto!” e qui è ferocia, rabbia tribale. I toni si accendono come in una battaglia comandata da Wakeman alle tastiere. Effetti bellici fuoricampo rendono tutto così reale e poi la calma e infine tutto tace. Resta Jon Anderson che all’unisono recita dei versi parlati la cui ritmica è replicata alle sue stesse percussioni (a ricalcare l’intro). Finale da brivido e un ritorno alle origini con un tocco di pura classe chitarristica: accordo discendente di Mi minore nona in fade out. Questo disco è un manuale per arrangiamenti di elevatissima fattura da tenere in cassaforte!
Poi ci sono canzoni che toccano l’anima come nient’altro a questo mondo, canzoni con cui si trascorrono i momenti più bui e che fanno lentamente vedere la luce ogni volta a note concluse. È il caso di The Meeting, struggente, strappalacrime eppure molto solare. L’intro pianistica è in sordina e da subito ci si accorge di essere di fronte a una ballata incredibilmente toccante; partono i versi “Surely I could tell, When I sleep tonight, A dream will call” con Jon Anderson davvero in grande spolvero.
Segue Quartet, la terza suite del platter costituita da quattro danze prog: 1) I Wanna Learn; 2) She Gives Me Love; 3) Who Was The First; 4) I’m Alive. Qui si arriva al punto più calmo, le ballate scorrono incredibilmente fluide seppur l’intero brano supera i 9 minuti. Imperano spunti riflessivi e d’autore, soprattutto su I’m Alive, un continuo alternare di momenti di malinconia con sprazzi di serenità con Wakeman che in questa gemma lavora davvero magistralmente con strings e pads molto ricercati e mai invasivi.
L’attacco della seguente Teakbois forse non sarà apprezzato dai puristi: i ritmi latini e caraibici sembrano alquanto lontani dalle abitudini di questi 4 musicisti che hanno “inventato” letteralmente un genere. È comunque inevitabile apprezzare tra tutti uno Steve Howe davvero a suo agio in tutto questo. Un brano ben strutturato e soprattutto evocativo. Il ritmo è forsennato, ma nelle liriche di Jon Anderson vi è sempre tanta devozione e spiritualità.
L’ultima suite, anche questa volta costituita da 4 danze (sempre prog) è Order Of The Universe. Nell’ordine Order Theme, Rock Gives Courage, It’s So Hard To Grow e The Universe. Altri 9 minuti in repertorio, ma questa volta di follia pura: i primi 2:50 sono di “semplice” introduzione. Un ostinato iniziale alle lead guitars di Howe apre all’ispiratissimo tema di Wakeman. Mid tempo e grande respiro, il tutto come spesso accaduto fino a ora, accompagnato ai tom da Bruford. L’intro è godibilissima, ma il top viene raggiunto dal coro polifonico al grido di “The Order of the Universe”. Un gioco di diversi ingressi in levare gustosissimo tra Anderson e Bruford è la ciliegina sulla torta di quello che si rivelerà il brano più pop-rock dell’intero lavoro, seppur di elevatissima fattura. Nei suoni e nel groove ricorda molto The Power of Love di Huey Lewis and the News se parlassimo dei verse. Le sorprese, però, sono sempre dietro l’angolo: il metronomo accelera e il brano acquista più vigore, un muro di suono spaventoso fino all’esplosione del chorus “The Order of the Universe” (qui Tony Levin si esalta). Un brano che riesce a dare la carica come pochi. Chiude il tema iniziale di Wakeman e Howe, ancora protagonisti nell’ultima Let’s Pretend. Brano scritto a 10 mani in collaborazione con Vangelis e siamo ai titoli di coda: “Let’s get our hearts together, As before, and like before We’ll do again Let’s get our hearts together” sembrano un augurio per un secondo disco che in realtà non vedrà mai la luce.
Gli ABWH ci consegnano una pietra miliare nell’infinita storia della musica che vanta un significato profondo, un elemento unificatore rappresentato da quello che il cuore vive ascoltando questo disco, la cui fattura sembra guidata da una mano sovraumana e celestiale. Sbaglia chi pensa che questo disco rappresenti un’appendice ai lavori degli Yes, con i quali i rapporti sono comunque forti e saldi (basti pensare ai rimandi testuali di Quartet), perché negli ABWH c’è una ferma volontà di provare a scrivere un’altra storia, quasi per provare a costruire una leggenda lasciando un contributo sontuoso, elaborato, meraviglioso e fortemente voluto. In questo progetto inoltre vi è la spregiudicatezza di accettare una sfida impossibile, perché l’eredità degli Yes era pesantissima, ma è in questo che va colta quella scintilla romantica di tutta la produzione di questo capolavoro della musica.