Recensione: Angels Are Calling
“Angels are Calling” è il primo full length marchiato Exotheria, un gruppo interamente italiano (originario del ferrarese) e dedito ad un Power Metal saldamente ancorato alla tradizione. Accostarlo per genere e provenienza ai ben più noti connazionali (Rhapsody), tuttavia, risulterebbe banale ed in fondo non darebbe nemmeno l’idea. Secondo la presentazione dell’etichetta, infatti, la classificazione corretta dovrebbe essere: Power Metal Neoclassico e Progressive, sulla scia di Helloween, Royal Hunt e Circus Maximus. Ma certe descrizioni raramente rendono giustizia. Tant’è che il disco racconta una storia differente. Se è possibile accogliere ampiamente il richiamo ai padrini dell’Happy Metal, dai quali gli Exotheria (a dispetto del nome) mutuano sia i principi stilistici, che soprattutto l’approccio positivo, resta difficile individuare qualcosa che in realtà li avvicini alle altre due band citate. Non c’è dubbio, comunque, che queste siano fra gli ascolti preferiti dal gruppo e rappresentino una fonte d’ispirazione (assieme a Stratovarius, Dream Theater, ecc). Ma volendo partecipare al gioco, e prendendo ad esempio l’opener “Memory”, l’impressione è che lo schema compositivo cerchi di ricalcare piuttosto “Carry On” degli Angra. Ovviamente, “Angels are Calling” vs “Angels Cry” sarebbe un paragone tanto lusinghiero, quanto terribilmente azzardato, e qui torna utile solo per ricostruire il concetto di un sound composito, vario, caratterizzato da elementi spesso e volentieri in contrasto (tipo quello fra passaggi articolati e refrain che vanno a stamparsi subito in testa).
Nelle band nate essenzialmente dal piacere di condividere l’interesse per l’Heavy Metal, il prodotto finale è di norma un compromesso necessario a far convivere le diverse anime, i molteplici background. E, nonostante siano abili a trovare un punto d’incontro, gli Exotheria non costituiscono eccezione. La chitarra di Emanuele Checcoli, in particolare, si rivela la componente più eclettica e sembra affondare le radici, oltre che nel Power e nel Prog, un pizzico anche nel Thrash. Se, invece, qualcuno chiedesse al cantante Nicola Ciarlini di indicare un modello di riferimento (a parte quelli già evidenziati) risponderebbe con ogni probabilità: Tobias Sammet in tutte le sue forme (Edguy, Avantasia). Mentre l’onnipresente uomo delle tastiere Matteo Petroncini, potrebbe abbozzare una lista infinita, da Derek Sherinian a Henrik Klingenberg (Sonata Arctica) e via discorrendo. Insomma il dato certo è che questi ragazzi sono innanzitutto degli appassionati di musica. Non inventano nulla, ma non sono nemmeno dei debuttanti allo sbaraglio. Ed effettivamente alle spalle hanno numerosi demo e tanta gavetta. Cosa che peraltro narrano con orgoglio nella parzialmente autobiografica, ma poco originale, “Time”. La gloria immaginata nel brano come lieto fine a coronamento del “sogno”, però, appare lontana. Se da un lato l’album raggiunge standard importanti per un debutto, anche grazie ad una buona produzione (di solito il vero punto debole di questi lavori), dall’altro lascia spazio a qualche perplessità di troppo. Per dirne una, non si comprende a pieno se le digressioni musicali siano una scelta espressiva convinta, oppure solo un vezzo artistico, inserito magari per il timore di essere altrimenti trattati con superficialità. Tutte le tracce da passare ancora in rassegna, infatti, superano i sette minuti di durata… ma allungare il brodo non significa esattamente essere Prog (così come essere Prog non significa esattamente essere migliori). E “The Throne of the Beast” ne è l’esempio paradigmatico. Il pezzo maggiormente rappresentativo (quello del demone in copertina), già introdotto da una title track strumentale, quando finalmente parte, sviluppa un motivo azzeccatissimo (quasi una sintesi fra bridge e chorus di “Eagle Fly Free”), ma nel momento in cui dovrebbe aprirsi e mantenere il tiro, è interrotto da una serie di stop and go abbastanza discutibili. Per dovere di cronaca, va detto che il brano appartiene al primissimo repertorio della band. Forse ha più valore affettivo che effettivo e si potrebbe giustificare un po’ di confusione. Il punto è che il problema non è limitato a questo episodio ed anzi si ripropone. In “Lost in Space” e “Forever One”, nelle quali velocità d’esecuzione e tematiche d’importazione (Gamma Ray) non sono sufficienti a far dimenticare un paio di intermezzi buttati lì a caso. E di nuovo in “The Day Has Come” e “In a Reverie”, laddove si insiste eccessivamente nell’omaggiare l’influsso neoclassico di Y. J. Malmsteen e derivati. Non eccelle, ma almeno si salva da queste considerazioni, la traccia omonima “Exotheria”, che in qualche modo dà un senso al minutaggio elevato iniziando come una ballad, per poi trasformarsi in una sorta di marcia epica, a metà fra una cavalcata maideniana e gli HammerFall.
In definitiva, per quanto “Angels are Calling” sia stato registrato di sicuro all’insegna del divertimento più spensierato e trasmetta “buone vibrazioni”, pare comunque destinato agli ascoltatori che amano sostenere la scena underground (specie se tricolore) e principalmente ai nostalgici del Power Metal anni ’90. Molti di questi potrebbero finanche ritenere piacevoli alcune citazioni e gli elementi presi in prestito dai “grandi”. Discorso diverso per i neofiti del genere, ai quali converrebbe cominciare dai classici o, peggio, per i palati fini, che difficilmente riuscirebbero a farsi bastare i passaggi orecchiabili, che pure sono notevoli, senza storcere il naso di fronte alle sbavature, dettate a volte dalla comprensibile voglia di strafare di Checcoli e Ciarlini. Il primo, cui va riconosciuto l’impegno con il doppio turno alla chitarra, è più a suo agio nelle parti ritmiche e melodiche, che nelle incursioni solitarie slegate dal contesto. Il secondo, pur avendo una naturale intensità, quando forza la voce pretende un po’ troppo dalle proprie doti. Non pervenuto, infine, il bassista Matteo Mantovani, che invia brevissimi segnali di vita appena ha campo libero (in “Lost in Space” e “Forever One”), ma sul resto è probabilmente penalizzato dal mixaggio.
Per adesso, c’è da annotare un avvicendamento alla batteria con l’ingresso di Gianluca Calanca (già Children of the Damned). In futuro, chissà che gli Exotheria non riescano a condensare le loro energie, magari incanalandole in un concept o un’altra tipologia di lavoro che possa mettere in risalto le trovate più efficaci e dare il giusto sfogo ad una comprovata propensione per la teatralità.