Recensione: Anthropocene
Göran Edman e Tommy Denander.
Chi ne conosce almeno un po’ carriera e collaborazioni, al solo citarli avrà istantaneamente inteso dove va a direzionarsi il secondo album dei Cry of Dawn.
Ideata e cucita su misura attorno all’ottima voce del singer svedese, la proposta dei Cry of Dawn ha già realizzato un primo capitolo di discreto successo edito nel 2016. In quell’occasione Edman era stato affiancato dall’estro e dal talento di un altro asso nordico come Michael Palace.
Pur non essendo passato agli annali come un capolavoro, il disco fu l’ennesima prova di classe di un cantante di razza superiore, ormai consolidato e riconosciuto tra i migliori interpreti di un certo tipo di rock melodico alla scandinava.
Il ripescaggio dei Cry of Dawn è dovuto a meccanismi sconosciuti: il nome del gruppo, pur avendo realizzato materiale di buona qualità, non è mai stato annoverato tra i capitoli fondamentali della scena nord europea.
Mero riempitivo tra un impegno e l’altro nel denso elenco di collaborazioni di Edman o corollario dell’infinito catalogo Frontiers, il nome Cry of Dawn torna a riaffacciarsi in questa strana primavera, ricollocandosi esattamente dove lo avevamo lasciato sette anni fa.
La presenza di un maestro del genere come Tommy Denander, factotum assoluto alle spalle del frontman svedese, è un rafforzativo della posizione, radicatissima, all’interno del melodic rock di origine “boreale” .
Con “Anthropocene“, siamo dalle parti proprio degli esordi dei due musicisti. Street Talk e primi Radioactive, i prodromi di uno stile che in questo cd ritornano in auge senza mezze misure.
AOR, tanta melodia, suoni che accoppiano chitarra e tastiere a cavallo di armonie agili e dall’inconfondibile taglio “scandi”.
Di gruppi che suonano come i Cry of Dawn, nell’arco degli anni ne abbiamo sentiti personalmente tanti. Sovvengono i Talk of the Town, Bad Habit, Tower City, Token, gli stessi Radioactive… tutti figli e figliocci dei seminali Toto, band che più di tutte ha piantato una base ben solida nelle zone fredde d’Europa.
Ed ogni volta, nonostante l’atteso e scontato effetto deja-vu, la sensazione all’ascolto è stata piacevole.
Un melodic rock alquanto di mestiere, “manieristico”, con parecchi scenari già ben conosciuti e rivisitati più volte. Che però, complice come anche in questo caso, la statura degli artisti alla regia, ha mantenuto intatti dei risvolti di piacevolezza.
“Devil’s Highway“, “Memory Lane“, “Long Time Coming Home“, “High and Low” sono esempi di canzoni che inquadrano alla perfezione un genere come lo scandi-AOR dalle influenze devote ai Toto.
Musica che conosciamo a memoria, esattamente come la voce di Edman e l’arte di Denander.
Non ci sorprendono più, ne l’una, ne gli altri.
Ma forse, proprio in questa familiarità consolidata, nell’essere ormai routine di uno stile che non cambia e si mantiene intatto, è ancorato il motivo per cui, dopo tutto, continua a piacerci.
Sull’utilità dell’uscita, in un tempo in cui c’è davvero troppo in giro e si fa una fatica immane a tener conto di tutto, alziamo ovviamente le mani. Il disco è gradevole, si ascolta volentieri e quello che esce dalle cuffie è musica di buona fattura.
E tanto ci basta.