Recensione: Antichrist
Con un copertina assolutamente kitsch e di cattivo gusto (non parliamo certo dell’iconografia, buona per sconvolgere tutt’al più qualche antico fariseo), Karlage King e la King’s band giungono all’ambito traguardo del secondo EP autoprodotto, avvalendosi della collaborazione di una solida realtà promozionale come Necrotorture Agency.
Italianissimi, a dispetto di un sound e di aspirazioni che vorrebbero essere assolutamente americaneggianti, i The King’s Band si presentano nelle vesti di una sorta di un one man project “atipico”.
Se, infatti, di one-man-band si parla trattando di un progetto imbastito e realizzato in piena autonomia da un unico artista, in questo frangente particolare il buon Karlage, oltre ad occuparsi della stesura dei pezzi e delle vocals, demanda le restanti parti strumentali ad un gruppo vero e proprio, affidando le proprie composizioni ad elementi che, da quanto ascoltato, paiono tutt’altro che sprovveduti alle prime armi o novizi dello strumento.
Proprio suoni ed indiscutibile abilità in tal senso, appaiono quali principali punti di forza di “Antichrist”, mini cd strutturato sulla base di cinque brani dal taglio compositivo spesso nervoso e di ardua interpretazione su cui si erge la voce peculiare e sgraziata dell’istrionico singer, alle prese con tonalità acute e nasali che, in alcune situazioni più di altre, tendono a divenire decisamente tediose.
Ispirato, stando a quanto riferito dalla biografia di presentazione, alla scena heavy-glam-street-hair degli anni ottanta (clamoroso il font utilizzato per il logo, evidente prestito dal ben più noto moniker dei Def Leppard), il dischetto si rivela molto spesso preda del punk primitivo dei seventies, (“Gypsy Night”), per poi spingersi in alcuni passaggi, su territori forse troppo ambiziosi per l’attuale padronanza di songwriting.
Le situazioni eccessivamente ardite ed ai confini del nonsense ascoltabili in una coppia di brani quali “You Are My Bitch” e “Death Or Glory” (pezzo nel quale Karlage perde del tutto lo stile da frontman per assumere quello da stonatissimo ed allucinato urlatore), rappresentano tutti i limiti dell’attuale proposta messa in campo dai The King’s Band.
Buona dimestichezza con gli strumenti, un po’ di voglia d’osare – a dispetto di un’immagine volutamente retrò – ma ancora molta poca consapevolezza nell’incanalare l’impeto stradaiolo in una forma compiuta che non sappia di puro e semplice abbozzo d’idee totalmente prive di capo ne coda.
Compreso lo stile del cantato, al momento davvero troppo grezzo per potersi definire accettabile, oltre ad un’immagine che sa di costruito ed innaturale nel suo voler essere a tutti i costi appariscente e d’impatto.
Ci sentiamo più avanti?
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