Recensione: Antithesis
Semplicemente inarrivabili. La macchina Origin ha ripreso a devastare
a pieno regime dopo tre anni difficili, passati quasi in silenzio, tra dipartite
e ritorni alla casa madre, in cui i nostri erano ricomparsi sulle labbra di
stampa e pubblico unicamente per via riflessa, dopo la nascita della costola
Unmerciful. Ma se la pazienza è la virtù dei forti, allora ne è valsa la
pena attendere speranzosi il ritorno di James Lee e compagni, con un
album destinato a rimanere negli annali del genere, marcando ancor di più il
divario tra gli Origin e il resto del mondo.
Antithesis si pone perfettamente all’interno del percorso
iniziato otto anni fa: inaugurazione con un debutto ancora un po’ acerbo ma gia
davanti a praticamente tutto l’underground dell’epoca, si prosegue con
Informis
Infinitas Inhumanitas, dove si registra la piena presa di coscienza
della band, con un album dalla ferocia ineguagliabile, per arrivare a
Echoes of
Decimation, dove gli Origin riescono a dare maggiore identità
alle proprie canzoni attraverso strutture più ricercate. Antithesis
rappresenta la completa maturazione della band, in cui i nostri sembrano essere
finalmente padroni di tutto quello che serve per creare un disco il più prossimo
alla perfezione, coniugando al meglio brutalità, abilità tecniche, e songwriting
di alto livello, raggiungendo un equilibrio tra le parti che in passato non è
mai stato così efficace.
Se da un lato Antithesis ci fa ritrovare gli Origin di
sempre, spietati automi votati alla distruzione, freddi, distaccati e
iperbrutali, dall’altro ci offre un’immagine inedita del combo americano, cioè
quella di musicisti che non temono di perdere intensità con il progressivo
evolversi delle proprie composizioni verso la forma canzone, non ancora
delineata appieno, ma di cui si possono apprezzare i diversi momenti, in cui per
la prima volta il raziocinio tipico della band si è leggermente spostato dalla
modalità distruggi (i padiglioni auricolari), a costruisci brani più complessi,
perfettamente distinguibili, e di maggior durata. Uno “switch-on” che sacrifica
qualche secondo della velocità classica, in favore di schemi di maggior respiro
e di break molto più pronunciati, dove un pizzico di frenesia viene persa per
lasciare spazio a inediti e indovinatissimi slanci melodici. Ma niente paura,
perchè la maggiore durata dell’album (quasi un disco doppio rispetto ai
precedenti) permette ai nuovi elementi, tra cui ottimi assoli, di fondersi a
meraviglia con il caratteristico trademark, lasciando il giusto spazio per
atterrire gli ascoltatori con bordate inaudite, e al tempo stesso emozionare,
trovando il tempo per essere anche epici… ascoltare Wrath of Vishnu per
credere, o la sontuosa title-track, nove minuti in cui gli Origin danno
una lezione a tutti coloro che negli ultimi tempi hanno percorso la via della
brutalità e della tecnica fine a se stessa, dimostrando ancora una volta che non
basta essere abili musicisti per creare ottima musica.
Ma dove siamo finiti? In che tempi viviamo? Gli Origin che provano
emozioni e che si prodigano in “suite” di oltre nove minuti? Ebbene sì,
Antithesis riesce dove altri hanno fallito, indicando che la corsa
all’estremizzazione è possibile, se percorsa senza paraocchi e con intelligenza.
Insieme a
Diminishing
Between Worlds, e
Trivmvirate,
l’album brutal death dell’anno, segno che un genere erroneamente bistrattato,
spesso per partito preso, non ha mostrato ancora i propri confini.
Stefano Risso
Tracklist:
1. The Aftermath 04:39 (mp3)
2. Algorithm 03:32
3. Consuming Misery 04:06
4. Wrath of Vishnu 04:44
5. Finite 03:08
6. The Appalling 02:55
7. Void 00:40
8. Ubiquitous 05:34
9. The Beyond Within 03:20
10. Antithesis 09:32