Recensione: Antithesis of Light
L’attesa per il ritorno di questi americani cominciava a farsi snervante e a qualcuno potrebbero essere nati dei dubbi tipici delle paranoie di chi aspetta ed intanto fantastica, sogna emozioni e magari si fa prendere dal timore di un flop. Non abbiate paura, anzi sì perché ancora una volta regna sovrana l’assoluta ed opprimente sensazione di annullamento, di totale ridimensionamento di noi stessi al cospetto degli Evoken, una macchina che svilisce l’umano.
Lungo The Antithesis of Light scorre una palpabile sensazione di dominazione, uno strapotere soggiogante che suggella un ritorno di classe dopo quattro anni, un disco enorme in tutti i sensi e capace di trasmettere un senso di potere perentorio.
Io li ricordavo maledetti, li desideravo implacabili, pesantissimi, inquietanti e così li ritrovo; una macchia nera che angoscia, rapisce ed annulla l’annullabile a suon di riff poderosi, pieni e roboanti, scanditi da un drumming che pesta robusto sulle pelli, vagamente effettato per dare un senso di profondo. Il ritmo di un tamburo tribale che scandisce l’avanzata delle tenebre accompagnato dal tipico growl penetrante.
Chi conosce gli Evoken sa anche che non si tratta di pura e semplice ostentazione di forza fisica, ma anche di una guerra psicologica, di un contorno che incornicia la cruda possenza con un sottofondo di sussurri sfumati, malati e viscidi (“The Mournful Refusal”), di suoni distorti che ammorbano l’atmosfera e la rendono irrespirabile, di tocchi di pianoforte che in un silenzio irreale non trasmettono pace bensì ansia. Una tenebra compatta, un buio imperscrutabile spavaldo e conscio di poter soggiogare, che non accenna a diradare lungo i settanta minuti ma, se possibile, peggiora sempre più accompagnandoci gradualmente nelle profondità di una dimensione a sé stante.
Eccola l’ennesima dimostrazione di classe di una band che impressiona con una oscura teatralità e che ha mantenuto il suo potere magico ed il gusto per la melodia, per le esplosioni di energia, per gli affondi impetuosi (“Pavor Nocturnus”), senza sdegnare escursioni nei blast beat (“In Solitary Ruin”) e non dimenticandosi di quanto siano fondamentali le tastiere, attorno alle quali ruotano tutte le melodie negative e la sensazione palpabile di strisciante ed infausto.
Le istruzioni per l’uso sono chiare, basterebbero la copertina, l’intro e l’aria demoniaca di “In Solitary Ruin” a scoraggiare gli sprovveduti. Se ciò non bastasse e si volesse aggiungere la durata consona per il genere ma non alla portata di tutti, l’implacabilità della produzione potente ed una chiara impossibilità di fuga da quello che è l’essenza del disco, si ha il quadro chiaro della situazione: doom dagli inferi senza via di scampo.
Volendo si potrebbe citare “Antithesis Of Light” come boccata d’aria, ma è veramente tutto relativo, perchè una composizione meno squassante non può essere una vera pausa, anzi è solo una delle sfumature di un viaggio tra voci che ci parlano nel buio, mani che ci sfiorano ed aliti che avvolgono. Sempre apprezzabile la matrice My Dying Bride che anche nel 2005 esce a galla con citazioni dal gruppo inglese nel suo periodo primordiale, estremizzandone i contenuti e le caratteristiche.
Personalmente resto ancora legato ad Embrace the Emptiness ed avrei gradito una manciata di “colpi gobbi” per staccare The Antithesis of Light dai suoi predecessori, ma la sostanza è che una tale prova di vigoria va presa per quello che è ed assaporata.
Questo è IL disco che può spiegare quanto inutile sia scappare dall’oscurità.
Tracklist:
01. Intro
02. In Solitary Ruin
03. Accursed Premonition
04. The Mournful Refusal
05. Pavor Nocturnus
06. Antithesis Of Light
07. The Last Of Vitality