Recensione: Any Given Moment
All’iconica domanda “Qual è il tuo cantante preferito?” la risposta che segue è l’inizio d’interminabili diatribe, che raccolgono impressioni soggettive e dati tecnici dei più disparati…
È giusto dire che ci sono stati (e ci sono tuttora) interpreti che non sfigurano accanto ai nomi più blasonati del settore ovvero artisti di valore che hanno dimostrato talento e carisma non comune, come nel caso eclatante del nostro Dennis Frederiksen: infatti, non è un mistero che il biondo singer (di origini danesi) sia considerato una delle voci più ispirate del panorama AOR degli anni ottanta, dove Fergie legò il suo nome all’album “Isolation” dei Toto (1984), ma, per pochi appassionati (compreso il sottoscritto), rimane la voce storica della cult band Trillion nonché l’indimenticabile interprete di “So Fired Up” (1983) targato Le Roux.
Così, dopo i fasti delle decadi passate (incluso l’onore di aver curato i backing vocals in “Eye Of The Tiger”), Fergie ci offre l’opportunità di rivivere quella stagione memorabile con il suo quarto album solista, il qui presente “Any Given Moment”: abbiamo detto “rivivere” perché la carica emozionale che pervade l’intero disco è merito essenzialmente della voce di Fergie, vivida e intatta, che non sembra minimamente intaccata dal tempo o minata dalla grave malattia di cui è affetto il frontman.
E se l’iniziale “Last Battle Of My War” è l’esempio lampante di quanto detto, la soffusa ballad “I’ll Be The One” rimane un manifesto innegabile della forza lirica del main vox: infatti, mentre chitarra e keyboards danzano in un lento struggente, Fergie incanta con forza ed eleganza affettiva unica, elevando di tanto in tanto la voce per sgorgare nel paesaggio corale, solcato da bellissimi tasti scintillanti, un perfetto affresco di potenza e poesia sui cui la chitarra narra sofferenza e passione, un brano che è uno scrigno di ricordi indimenticabili (“Give Me Your Money Honey” (Trillion), “Don’t Stop Belivin’” (Journey)…).
Si potrebbe accusare Fergie di proporre un lavoro derivativo, ennesimo parto delle esperienze maturate negli anni ma se gli stilemi del classico sound confluiscono per forza di cose nell’album (ad es. il “canovaccio” della fuga imperniato su tastiere e chitarra dell’opener), il vigore compositivo permane nelle quasi totalità delle canzoni: se il battito di “Hold The Line” è ancora vivo e pulsante nel riffing di “Let It Go”, il linguaggio della title track è un equilibrio sinfonico che dipinge colori caldi, vividi, come il tramonto che campeggia sulla cover del disco.
L’abilità di modellare le armonie risiede nella duttilità vocale di Frederiksen, capace di piegare la linea melodica di “Candles In The Dark”, creando una via attraverso le tenebre che per l’ascoltatore è un piacere paradisiaco seguire, il tutto avvolto tra le spire del coro, dove il guitar work può crescere e donarci eleganti fraseggi (purtroppo “sfumati” alla fine del brano…).
Non mancano neppure atmosfere esotiche, degne di “Africa”, risvegliate dalle tastiere e accarezzate dalla chitarra di “Not Alone”, song che fa propria la lezione dei numi tutelari Rush (“Hold Your Fire”), deliziandoci con il sodalizio tra voce maschile e femminile (Issa Overseens), un intreccio di melodia sugellato nelle note del refrain.
Al di là della sensazione di riuscito revival, bisogna dare atto agli autori del platter di aver creato atmosfere delicate senza scadere nell’eccessivo autocompiacimento, tipico delle ballad, conferendo energia anche nei momenti più romantici: tale concezione è ampiamente illustrata in “How Many Roads” dal perfetto bilanciamento tra le sezioni più zuccherose (piano e scorci acustici delicati e sussurrati) e le parti più intense (sottolineate da un aumento del volume sonoro); inoltre, la stessa idea viene ribadita nelle vette liriche toccate in “Price For Loving”, canzone dove i synth d’atmosfera, acuti e penetranti, sfumano, per dar voce al groove incedente e roccioso del playground chitarristico.
E’ dunque “Any Given Moment” un album da promuovere a pieni voti?
In questo caso sono lieto di rispondere con un secco “Sì!”, considerato il fatto che le ottime impressioni suscitate in apertura vengono ampiamente confermate dalla qualità dei pezzi conclusivi: “When The Battle Is Over” aggiunge carica alla tracklist, complice un chorus energico e una struttura varia per dinamismo e tonalità, in grado di attribuire una parte di rilievo ad ogni strumento, dalla chitarra (graffiante e rocciosa) alla sessione ritmica, fino al binomio tastiera – piano, un chiaroscuro che conferisce grazia e ricercatezza al brano. Aggiunge fuoco alle polveri la rilettura di “Angel Don’t Cry”, brano di “Isolation”, che ricalca fedelmente la versione originale senza stravolgere il riffing serrato della sei corde, una scorribanda hard rock trainata con classe melodica dal solito irresistibile Fergie, il tutto arricchito dagli inserti tastieristici dell’onnipresente producer Del Vecchio e da arrangiamenti ad hoc per attualizzare il quadro sonoro.
Un disco sfaccettato, avvincente e nostalgico al tempo stesso, frutto della collaborazione di molteplici artisti, tra cui spicca Roberto Tiranti, supporter d’eccezione in grado di conferire valore sinfonico e sfumature liricheggianti alle parti corali.
Il rock gode di buona salute? Forse il tempo dei miti si è concluso ma è sicuro che fin quando esisteranno interpreti ispirati come Frederiksen e nuovi astri come i Myland il fuoco della musica più passionale ed emotiva non smetterà mai di ardere!
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