Recensione: Aphelion

Di Stefano Usardi - 27 Agosto 2021 - 10:00
Aphelion
Band: Leprous
Etichetta: Inside Out Music
Genere: Progressive 
Anno: 2021
Nazione:
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80

Ed ecco che, dopo la canonica pausa di due anni, arriva puntualissimo il nuovo album dei Leprous, “Aphelion”. Registrato in tre studi differenti per far fronte al caos pandemico che, checché se ne dica, attanaglia ancora il globo, “Aphelion” prosegue il discorso musicale e concettuale intrapreso dal nordico quintetto col suo precedente lavoro: anche in questo caso Einar ci parla di salute mentale e della lotta contro ansia e depressione partendo dalla propria esperienza personale, ma stavolta si avverte una maggiore, seppur pacata, positività di base, come se la luce in fondo al tunnel iniziasse a farsi concreta. Ciò non impedisce al gruppo di velare l’album con una buona dose di inquietudine latente, percepibile spesso sotto la superficie elegantemente cesellata dai nostri. Musicalmente “Aphelion” si pone, come già accennato, come la naturale evoluzione di “Pitfalls”: un rock (di nuovo, qui di metal non c’è assolutamente nulla) languido, elegantissimo e stiloso, per certi versi minimale, venato di elettronica e di echi ambient più o meno sottaciuti. Le chitarre cedono spesso le luci della ribalta agli archi di Chris Baum e Raphael Weinroth–Browne e agli ottoni dei norvegesi Blåsemafiaen, lavorando dietro le quinte per donare al tutto rotondità e limpidezza, coadiuvate da un comparto ritmico di tutto rispetto. Neanche a farlo apposta, la parte del leone la fa la voce cristallina di Einar, che qui si diletta addirittura con qualche passaggio di voce ruvida tra un falsetto e l’altro. Il risultato è, ancor più che nel precedente lavoro, di difficile catalogazione: un’esperienza destabilizzante, formalmente impeccabile, apparentemente commerciale e a tratti ingannevolmente fredda, che – se mi permettete il parallelismo forse azzardato – mi ha ricordato certi ambienti di design tipicamente nordici che celano al loro interno una forte emotività, rigorosamente incanalata in una struttura ariosa ma apparentemente spoglia ed impersonale.

Note inquiete aprono “Running Low”, cui segue il fraseggio suadente degli archi. La canzone striscia sottopelle, dispensando schegge sporadiche di quell’accattivante sentore da sigla iniziale di un film di James Bond che già aveva dominato “Below“, opener di “Pitfalls”, declinato però secondo dettami più drammatici. Ritmi blandi e melodie languide guidano l’ascoltatore attraverso “Out of Here”, canzone lineare che di colpo si carica di enfasi grazie a una sapiente stratificazione sonora prima di affievolirsi e cedere il passo alla più tesa “Silhouette”. L’elettronica pretende attenzione, colorando il pezzo di toni striscianti ed affiancandosi a un’ottima sezione ritmica, tesa e vibrante. Ogni strumento si ritaglia il proprio spazio donando profondità al pezzo, che si dimostra sempre coinvolgente fino alla fiammata sinfonica finale da applausi. Una finta partenza perentoria ci dice che siamo arrivati a “All the Moments”, giocato su toni bassi e lenti che di colpo esplodono nel ritornello trionfale e disperato al tempo stesso, e che si spengono altrettanto rapidamente a metà  canzone. Il pezzo riparte in modo più intimista, malinconico e minimale, per poi recuperare l’enfasi in un ultimo fuoco d’artificio prima di sciogliersi di nuovo nelle malinconiche note del piano. Un’atmosfera da club permea la successiva “Have You Ever”, canzone che dispensa ritmi contenuti e melodie soffuse, appena accennate, per fornire ad Einar un tappeto sonico guardingo, dal retrogusto pop, che spinge sul pathos durante il ritornello ma senza mai abbandonare la sua dolce andatura. La stessa atmosfera stilosa si percepisce nella più movimentata ma altrettanto chicThe Silent Revelation”, sorta di contraltare della traccia precedente che ne mantiene alcune caratteristiche salienti aggiungendo un bel lavoro sottotraccia del gruppo, più magmatico ed esplosivo. Archi languidi ma non privi di una certa inquietudine aprono “The Shadow Side”: anche qui, o quantomeno nella prima metà del brano, potremmo parlare più di pop elitario che non di progressive canonico, ed anche stavolta il risultato è raffinato, elegante ed estremamente scorrevole. Solo nella seconda parte si assiste ad un relativo ispessimento della proposta che si fa più movimentata, lasciando trasparire ciò che inizialmente si era mosso sotto la superficie e permettendo di intravedere schegge progressive prima del finale sfumato. “On Hold” torna a snocciolare elementi di elettronica per accompagnare la voce magnetica di Einar in un lento crescendo, che si carica di tensione dopo la prima fiammata drammatica per poi ricominciare da capo. Otto minuti scarsi di catarsi musicale che cedono il posto a “Castaway Angels”, altra canzone intimista e struggente introdotta da un arpeggio di chitarra che accompagna un sussurrante Einar. Il pezzo si sviluppa in un continuo crescendo carico di pathos, in cui il breve assolo si intromette un attimo prima del finale nuovamente soffuso. Chiude l’album “Nighttime Disguise”, traccia nervosa in cui le chitarre tornano a farsi sentire in modo più deciso: il pezzo è il più canonicamente prog dell’intero album, caratterizzato da numerosi cambi di atmosfera  e dal solito lavoro certosino degli strumenti elettrici che gli dona un profumo inquieto e cangiante, permettendo ai nostri di sfogarsi un po’. Ecco quindi che a passaggi più contemplativi e minimali fanno eco rapide sfuriate di basso, melodie inquiete ed ansiose e fraseggi eleganti e al tempo stesso enfatici, fino alla chiusura ringhiante e maestosa.

Come già detto, “Aphelion” risulta la perfetta continuazione del percorso intrapreso dai Leprous, che si confermano degli abilissimi manipolatori di emozioni. Nella sua estrema, apparente linearità, “Aphelion” è un lavoro incredibilmente strutturato, ponderato a fondo e molto ben fatto, anche se sono abbastanza sicuro che, come per il suo predecessore, non piacerà a tutti. Se mi si permette una nota del tutto personale, l’ho trovato un po’ troppo chic e paradossalmente più difficile da digerire rispetto a un “Pitfalls“, che ancora gli preferisco. Al tempo stesso, però, penso di poter dire senza timore di smentita che i Leprous sappiano il fatto loro e va dato atto al quintetto di non essersi fossilizzato neanche stavolta su una ricetta vincente, ma di aver inserito elementi diversi nella propria musica in una continua ricerca di nuovi stimoli. Bravi.

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