Recensione: Apocalypse Again
Nuovo album per i Thunderstone, gruppo finlandese relativamente giovane (il gruppo nasce ufficialmente nel 2000) ma abbastanza prolifico, visto che vanta già cinque album all’attivo a cui si aggiunge, ora, questo Apocalypse Again. La formula è quella del classico power metal melodico di stampo nordeurpoeo, screziato qua e là da pennellate rockeggianti e qualche svolazzo neoclassico per non farsi mancare niente.
Il compito di aprire le danze è affidato a “Veterans of the Apocalypse”, opener esplosiva, come tradizione comanda, che mette tutti d’accordo grazie alla batteria martellante di Mirka Rantanen, le sontuose tastiere di Jukka Karinen e le bordate chitarristiche di Nino Laurenne, sebbene anche il basso di Titus Hjelm si faccia sentire in più di un’occasione. A condire il tutto la voce di Pasi Rantanen, capace di essere sia melodica che sporca senza per questo sembrare forzata. Il bersaglio è colpito in pieno dal gruppo, che ci consegna un pezzo giustamente arrembante coronato da un finale tutto cori.
Si passa a “The Path”, pezzo più cadenzato e sempre sorretto dalle solite tastierone che strizza l’occhio a un certo rock, con Mirka padrone della scena soprattutto durante il bridge: il brano scorre che è un piacere, alternando momenti melodici e solari ad altri più atmosferici e maligni, senza mai perdere di vista la classica struttura-canzone con l’immancabile alzata di tono nel finale. Anche con “Fire and Ice”, introdotta dalle onnipresenti tastiere, si prosegue grossomodo sullo stesso sentiero, puntando su una strofa atmosferica che si alza di tono man mano che ci si avvicina al chorus molto semplice e azzeccato, confezionando una canzone che, ne sono certo, vi troverete a canticchiare già dopo un paio di ascolti. Niente male anche il breve duello tra tastiere e chitarre che prelude il finale: niente di particolarmente originale, d’accordo, ma fa comunque il suo dovere.
“Through the Pain”, dopo un bel riffone distorto molto rockeggiante, si distende su tempi medi e punta su un approccio molto anthemico, che con ogni probabilità farà parecchi proseliti durante i live del gruppo. Anche qui un bell’assolo di tastiere + chitarra, carico di feeling, prelude al classico finale a cui i nostri ci hanno abituato, traghettandoci poi fino alla successiva “Walk Away Free”, in cui le tastiere si fanno ancora più presenti e la voce di Pasi si carica di una maggiore espressività, alternando passaggi più miti ed intimi ad altri maggiormente emozionali. La traccia stessa, in realtà, viaggia su binari paralleli, in bilico tra un’anima più drammatica e sontuosa e momenti più vigorosi, durante i quali Mirka parte in quarta trasformando “Walk Away Free” in una cavalcata melodica.
“Higher” parte bene, sorretta da un riff nervoso e tastiere a tratti quasi settantiane, ma andando avanti nell’ascolto qualcosa si inceppa: sarà per il chorus a mio avviso piuttosto inconcludente o per l’assenza di un vero climax durante lo svolgimento della canzone, fatto sta che mi è sembrato un brano incompleto, buttato lì prima di essere sviluppato a dovere. Peccato, perché le premesse erano, per quel che mi riguarda, molto interessanti. È ora il momento di “Wounds”, che dopo la pausa di “Higher” ha il compito di tornare a ritmi ben più briosi, con la doppia cassa in evidenza e melodie più classicamente power sorrette da una chitarra veloce e melodie trionfali. Niente da dire, brano decisamente godibile che, non ci fosse già stata “Veterans…”, sarebbe stata una perfetta opener.
“Days of Our Lives” è introdotta da un gioco di tastiera doppiato da un bel riff tamarro, per una traccia che, dopo una falsa partenza quasi da ballad, riprende per certi aspetti il mood di “Through the Pain” e “Walk Away Free”: in soldoni, ci troviamo davanti ad un bel mid tempo anthemico spruzzato, qua e là, di momenti più emozionali (vedasi ad esempio il bell’assolo che, al solito, prelude il finale).
L’album è chiuso da “Barren Land”, traccia che, con i suoi quasi otto minuti, è la più lunga del lotto. Qui le tastiere si fanno più atmosferiche, sostenute da una bella base chitarristica su cui, a sua volta, spadroneggia la voce di Pasi. La melodia portante del brano torna a far capolino più volte durante lo svolgimento dello stesso, ma ciò non impedisce al gruppo di introdurre elementi diversi, ora più sontuosi, ora più malinconici, per creare il proprio personale collage sonoro e salutare a modo suo l’ascoltatore.
So cosa state per dirmi: “Sorbole, dalla tua recensione sembra un album super figo, Stefano, ma allora perché gli hai appioppato un voto così basso?”. Ora, a parte il fatto che non so come abbiate potuto già leggere il voto, visto che non l’ho ancora scritto, rispondo subito alla vostra domanda: il voto rispecchia il fatto che quest’album, per quanto ben suonato, ben cantato e confezionato in modo molto soddisfacente, non si discosta di un pelo dai mille album power che ogni anno vengono pubblicati. Come se non bastasse, pur essendo tutte le sue canzoni di buon livello, “Apocalypse Again” non possiede dei veri e propri highlights, né delle canzoni che facciano veramente il botto: non c’è un guizzo, un’idea brillante, né un pizzico di quella cattiveria, aggressività o anche di quella classe che permettono a un album di svettare sopra la massa dei “soliti dischi power”. Intendiamoci, in sé non è un brutto album: è molto ben suonato e godibile, e scorre senza intoppi per tutti i suoi tre quarti d’ora, ma è anche il classico prodotto senza infamia e senza lode, uguale ad almeno altri dieci album che probabilmente avete già sul vostro scaffale o nella memoria del pc, ragion per cui prima di procedere all’eventuale acquisto di questo “Apocalypse Again” vi suggerisco in tutta onestà un ascolto preventivo.