Recensione: Aquila
Gli Holy Tide sono un ensemble cosmopolita che raccoglie due elementi carioca (Caldeira alle vocals e Scaranelo alle chitarre), il britannico Brush alla batteria (già nei Sirenia e nei Magic Kingdom) ed il salernitano Joe Caputo al basso, ideatore e fondatore dell’intero progetto, songwriter, nonché colui il quale ha certosinamente selezionato i vari membri in formazione. L’etichetta che licenzia il loro esordio è pure italiana, trattasi della My Kingdom Records. Per essere un debutto, il qui presente “Aquila” si dimostra subito ben strutturato e solido, un disco che potrebbe essere il parto di una band di esperienza, con una discografia già nutrita alle spalle ed una routine consolidata anche in sala di registrazione, poiché a livello produttivo tutti i suoni di “Aquila” sono al posto giusto, potenti e cristallini.
Le linee melodiche ed interpretative di Caldeira al microfono mi hanno fatto tornare in mente assai da vicino quelle dei primi Poverty’s No Crime di Volker Walsemann di metà anni ’90, anche se rispetto ai tedeschi la cornice nella quale la voce si va ad inserire è assai meno progressiva e più quadrata. Non che gli Holy Tide non costeggino a loro modo anche quei lembi, tuttavia a conti fatti “Aquila” è e rimane un album prosaicamente metal, senza troppe parentesi intellettualoidi e cervellotiche. Ad arricchire la tavolozza ci pensano appunto le accorate narrazioni di Caldeira e le divagazioni che la band si concede affidandosi ai molti guest e ad una strumentazione complementare a batteria e corde elettrificate. Mi riferisco ad esempio all’Hammond di Don Airey (Deep Purple) in “The Sheperd’s Stone“, all’arpa di Assunta Caputo in “Curse And Ecstasy” e “The Crack Of Dawn“, alla tromba di Gabriele Stotuti sempre in “Curse And Ecstasy“, all’oud (un liuto) di Peppe Frana in “Return From Babylon“, al marchio del lupo (Tilo Wolff dei Lacrimosa) in “Lamentation“.
Nonostante tanta abbondanza in sala prove, “Aquila” ha però la limitazione di rimanere un lavoro come tanti. Un lavoro – come detto – roccioso, affidabile, quadrato, formalmente corretto e impeccabile, ma senza una grandissima anima. Non è poi così complicato scovare altri album, nuovi e recenti, che si abbeverano alle stesse coordinate stilistiche. Gli Holy Tide insomma peccano a mio avviso di conformismo, di compitino fatto bene ma seriale, pur leggendo in contoluce una spasmodica ricerca di infondere pathos in ogni nota. Professionalità e perizia esecutiva non deficitano affatto, ma il songwriting non eccelle, non si mette in evidenzia, non si fa notare per particolare estrosità, originalità e personalità. Si viaggia su binari saldi e sicuri, ma sempre e soltanto dritti. Si arriva quindi a destinazione senza intoppi, ma anche senza troppa eccitazione. Il viaggio si è svolto secondo i canoni, come previsto dall’inizio alla fine.
Tutto risiede, in questi casi, nelle aspettative di chi si pone all’ascolto; di cosa siete alla ricerca? Di fenomeni? Di grandi architetture innovative e azzardate? O piuttosto di sentirvi a casa, cullati e rassicurati dal calore corroborante di sentimenti di familiarità e riconoscibilità? “Exodus“, “Curse And Ecstasy“, “The Crack Of Dawn” sono annotate sul mio personale taccuino come i momenti più riusciti e significativi del lotto. “Aquila” è un disco più che dignitoso e che non dubito potrà piacere a molti, si tratta semplicemente di un album che non sposta in avanti di un centimetro il concetto di heavy metal nel 2019, il che di per sé non è detto nemmeno sia necessariamente un difetto.
P.S.: da segnalare che in realtà tutte le chitarre sull’album sono state suonate da Kris Laurent, autore anche dgli arrangiamenti orchestrali.
Marco Tripodi