Recensione: Arcadea
“Boia dé, che fattanza!” mi sono ritrovato a dire al primo ascolto di “Arcadea”, album di debutto della band che porta lo stesso nome. Più che band, ad ogni modo, sarebbe più adatto usare il termine ‘side-project’ o ‘superband’. Il trio infatti è composto da elementi già attivi in altre formazioni, vale a dire Core Atoms (Zruda), a occuparsi di tastiere e chitarre, Raheem Amlani (Wither), responsabile dei synth e soprattutto Brann Dailor, batteria e voce dei Mastodon. Presupponendo che l’ultimo nome sia noto a tutti e notando la netta preminenza di tastiere e strumenti elettronici insito nella formazione, la fattanza di cui in apertura può risultare già relativamente decifrabile.
“Arcadea” è, infatti, un disco pesantemente prog, ma anche pesantemente psicolisergico, ben oltre lo stoner più onirico: 43 minuti di atmosfere stranite, in effetti molto prossimi ai Mastodon più psichedelici. In effetti, ascoltando le ottime “Gas Giant” o “Infinite End” il nome della band di Dailor risulta il primo a venire alla mente, vuoi per atmosfere, vuoi per la voce che, dai tempi di “Crack the Skye” ha avuto tempo di trasformarsi in marchio di fabbrica. Ma vi sono delle differenze. L’elemento tastieristico è molto più pronunciato, quello heavy-metallico passa decisamente in secondo piano.
E ancora, nonostante una durata più contenuta dei pezzi rispetto a quelli dei Mastodon, il tutto risulta estremamente affascinante e schizzato, seppur di non semplicissima assimilazione. E qui salta fuori un altro nome, almeno a parere di chi scrive. Quello dei The Liars, trio newyorkese che su queste pagine non incontreremo mai e che normalmente viene categorizzata come “post indie o post punk” (pur risultando più adatto, a parer nostro, l’etichetta “post-funghi”). I Liars balzano alla mente per la loro abilità di creare atmosfere sospese piuttosto acide e parecchio marce. Queste atmosfere, create anche tramite la gestione del cantato (bislacco e psicopatico anzichenò), risultano particolarmente pronunciate in “Rings of Saturn”, “Neptune Moons” e comunque in un po’ tutto il disco.
Perché va detto, questa strana commistione tra due artisti molto diversi tra loro, produce un gruppo di canzoni omogeneo, forse troppo. Perché in effetti le canzoni si somigliano davvero molto, il che sui primi ascolti risulta piuttosto stancante. Ma il disco sta comunque bene in piedi. Sarebbe da spendere qualche parola sul concept dell’album, ma già il fatto che la storia si svolga a 5 miliardi di distanza nel futuro, al momento di una redifinizione dei criteri fisici che reggono l’universo, rende il tutto un po’ astratto. Ad ogni modo, “Arcadea” mette in mostra un sound decisamente specifico e peculiare. Un sound che affascina, anche se nel nostro caso non ha conquistato a pieno. Un sound che risulta indiscutibilmente generato dalla voglia di divertirsi e di osare qualcosa di diverso. Perché date le premesse si stava poco a fare una versione più elettronica, leggera e accessibile dell’ultimo Mastodon. E invece no, ci troviamo in mezzo all’emporio del peyote (ascoltare il trittico finale bendati e legati onde evitare di buttarsi dal terrazzo perché l’albero di fronte a casa ti assicura che puoi volare). E per lunghi ascolti non ne usciamo.
Insomma, questi Arcadea partono bene e ci lasciano il solo dubbio che, visti gli impegni dei musicisti coinvolti (in particolare di uno di essi), non finisca per risolversi in un progetto estemporaneo che si spegne nell’arco di una sola release.