Recensione: Archaic Interpretation Of Freedom
Una volta esclusivo retaggio del black metal, le one-man band hanno valicato i confini del genere stesso per emigrare verso altri lidi. Per esempio nei territori del death metal, specificamente di stampo melodico. La relativa facilità di riuscire, da soli, a eseguire in maniera più che degna una song completa di tutta la strumentazione necessaria ha dato il la a una stirpe pressoché infinita, numericamente.
In essa, si trovano i Nervesun di Jan Wollny che, coadiuvato dal solo Jan “Blastphemer” Benkwitz (ex-Belphegor, Feed Her To The Sharks) alla batteria, ha potuto dare alle stampe la sua Opera Prima, intitolata “Archaic Interpretation Of Freedom”. La scelta di essersi dotato di un drummer umano è senz’altro encomiabile giacché è proprio nei pattern ritmici che i mono-ensemble manifestano il loro più evidente punto debole. Così facendo, invece, Wollny supporta nel migliore dei modi un sound altrimenti fiacco e debole.
Prima si è accennato al death metal melodico ma, pur essendo tedeschi, la lontananza dei Neversun dai modelli scandinavi è enorme, poiché “Archaic Interpretation Of Freedom” è un violentissimo calcio nello stomaco, presentante tutte le caratteristiche del metal estremo più spinto (“Embracing The Downfall”). Voce dal growling roco e scabro, chitarre mulinanti riff dal ronzio senza soluzione di continuità, basso a bomba, ritmi che bucano spesso la barriera dei blast-beats. Quello che si può considerare melodico sono brevi intarsi (“Prestige Is A Lie”) ove l’armoniosità diventa l’elemento principale del tutto. Essi sono parecchi e sono sparsi lungo il platter con una certa regolarità.
Assommare a sé tutta la responsabilità del songwriting è classica medaglia con rovescio. Se da un lato tale approccio garantisce la regolarità dello stile al variare delle canzoni, dall’altro tende a uniformare eccessivamente i singoli episodi. Non poter intersecare, confrontare, arricchire il proprio modus compositivo con quello di altri conduce, quasi inevitabilmente all’appiattimento compositivo. Nel senso che, preso per buono il sound che caratterizza il lavoro, diventa assai complesso districarsi da una preoccupante monotonia. Che, se non risolta con la freschezza di scrittura, porta inevitabilmente alla nota.
Wollny ce la mette tutta, per cercare di centrare l’obiettivo di rendere accattivante (se così sì può dire) le sue creature. Cerca di inserire qualcosa di melodico, per l’appunto, qualche campionatura, qualche idea non troppo abusata sparsa qua e là. Tuttavia, malauguratamente, il tentativo non riesce appieno, relegando allo stato di mediocrità “Archaic Interpretation Of Freedom” e, quindi, al limbo dell’underground senza speranza.
Daniele “dani66” D’Adamo