Recensione: Archaic Towers of Annihilation
Continua imperterrita l’ondata proveniente da oltre oceano che trasporta, in sommità delle onde, act dediti all’old school death metal. Come gli Skullcrush, alle prese con il loro debut-album, “Archaic Towers of Annihilation”.
Un fatto in questo caso quasi sorprendente poiché si tratta di una band nata da poco, più precisamente due anni fa, e che, invece di adattarsi ai dettami del moderno death metal, preferisce compiere un salto all’indietro nel tempo sino ad arrivare ai suoi primordi, individuabili alla fine degli anni ottanta, inizio degli anni novanta.
Quindi, già in partenza si sa con che cosa si ha a che fare: linee vocali roche e stentoree, chitarre zanzarose, basso a tappeto e drumming primordiale. Il tutto, condito da una produzione volta a rendere vivo un sound che pesca le sue radici lontano nel tempo.
Questo, in soldoni.
Poi c’è la particolare interpretazione che i Nostri danno al genere che, stavolta, è una circostanza tutta loro. Chiaramente per tutto quanto più su esposto non c’è da stupirsi per un sound prevedibile e piuttosto scontato, che non regala molto di più di quanto già ascoltato in materia.
Anche i temi trattati non si discostano granché dai soliti cliché triti e ritriti, conditi a base di torture, tombe e putrefazioni varie. Del resto, anche in questo caso si tratta di rispettare i canoni lirici del genere che, di contro, non avrebbero molto senso se incentrati, per esempio, su ipotetici futuri distopici.
Piuttosto interessante, a vece, il mood, l’umore che il terzetto dai complicati war-name (High Seeker of Apocrypha, Ideal Master of the Holy Crypt, Grand Marshall of Hell), riesce a infondere nelle tracce del disco. Atmosfera cupa ma chiara nel lasciar intravedere forme e sostanze dei soggetti delle varie canzoni. Così, si possono scorgere angoli bui, tetri, in cui si consumano gli orrori narrati. I tre dannati figuri, e qui c’è un gradito ritorno all’epopea degli alias roboanti, perdutasi per strada durante lo scorrere dei lustri, sanno bene in che modo debbano agire, ed eseguono il loro compito alla perfezione. Potrebbe apparire un particolare insignificante, ma il ricorrere a dei nomi di fantasia può aiutare, e non poco, a ricreare quelle atmosfere sulfuree, pregne di maleodoranti corpi e membra in decomposizione, tipiche dei primi anni. Che si sollevano da terra in occasione, soprattutto, dei cospicui rallentamenti che strizzano l’occhiolino al doom (‘Buried and Forgotten’).
In sostanza, quindi, si può dire che gli Skullcrush ce l’abbiano fatta a materializzare un suono perfettamente aderente, a mò di sudario, alle caratteristiche principali che definiscono l’old school death metal. Non solo, l’apparente semplicità di esecuzione e la povertà tecnico-artistica è chiaramente voluta, giacché gli Skullcrush stessi riescono comunque a disegnare un proprio stile, una propria foggia musicale. Fattispecie che non è detto debba per forza verificarsi.
Come spesso accade in questi casi, allora, occorre ascoltare il full-length nella sua complessità senza soffermarsi troppo sui singoli brani, obiettivamente trascurabili se presi a uno a uno. Un songwriting volto quindi, in primis, a dar vita alla linfa vitale che scorre in “Archaic Towers of Annihilation” e poi, in seconda battuta, a occuparsi delle canzoni che, come specificato or ora, hanno davvero poco d’interessante.
Insomma, tutto quanto solo per fan sfegatati e/o intenditori.
Daniele “dani66” D’Adamo