Recensione: Arcturian
Dei giganti. Uno dei quei gruppi che, lo si voglio riconoscere o meno, sono riusciti a riscrivere le sorti di un intero movimento, il black, che per non poco tempo sembrò essersi eccessivamente adagiato su sé stesso. Gli Arcturus sono riusciti nell’impresa di scardinare le fondamenta di un genere, rimaneggiandole a proprio piacimento, dando vita a qualcosa di totalmente nuovo: l’avantgarde.
Era il 1995 quando, in quel di Oslo, il nucleo formato da Garm (voce), Carl August Tidemann (chitarre), Skoll (basso), Sverd (tastiere) e Hellhammer (batteria) diede vita a quel piccolo gioiello chiamato ‘Aspera Hiems Symfonia‘, disco quantomai insolito, che se da un lato non rinnegava assolutamente le sue radici estreme, dall’altro cominciava già a sperimentare con soluzioni molto più vicine all’universo progressive. Il passaggio allo sperimentalismo più sfrenato avvenne piuttosto rapidamente: nel 1997 uscì ‘La Masquerade Infernale‘, una delle opere chiave per la nascita dell’avantgarde metal per come lo conosciamo oggi. Il black delle origini fu rimpiazzato da un miscuglio variopinto di generi tra i più disparati, dando vita a qualcosa di nuovo, diverso. Tempo cinque anni ed ecco i Nostri ripresentarsi sui mercati con ‘The Sham Mirrors‘. Neanche a dirlo, per la terza volta, il combo si ripeté, partorendo un lavoro di notevole spessore artistico, in cui l’elettronica trovò, mai come prima d’ora, spazio all’interno di composizioni che si facevano via via sempre più articolate.
Nel 2003 accadde però l’impensabile: Garm decise di mollare la band, lasciandola senza un front-man. Chi reclutare per sostituire degnamente una voce così particolare? I restanti membri non ebbero alcun dubbio nell’accogliere tra le proprie fila un altro personaggio chiave della scena estrema norvegese, quel Ics Vortex -al secolo Simen Hestnæs- che molto bene aveva già fatto con Borknagar e Dimmu Borgir.
Con questa nuova lineup il gruppo rilasciò ‘Sideshow Symphonies‘, opera piuttosto controversa che se da un lato non fece che confermare ulteriormente le grandi abilità esecutive dei musicisti (Vortex incluso), dall’altro lasciò più di qualche fan interdetto. La ragione? La pressoché totale mancanza di vera sperimentazione.
Dov’era finita quella voglia di proporre qualcosa di nuovo? Che fine aveva fatto l’estro creativo che aveva spinto gli Arcturus a scrivere quelle opere squisitamente assurde? Era davvero giunto il momento di diventare una band come tante altre?
I ragazzi decisero di prendersi una pausa, una lunga pausa durata dieci anni e interrotta quest’anno, con l’uscita del nuovo ‘Arcturian‘.
Cosa aspettarsi da questo nuovo album? Sarà davvero valsa la pena aspettare così tanto? In parole povere, come suona questo ‘Arcturian’? Andiamo con ordine. L’impatto iniziale è piuttosto promettente: la copertina richiama quell’atmosfera teatrale che aveva caratterizzato lo splendido ‘La Masquerade Infernale’, attualizzandola grazie a tonalità cromatiche apparentemente stridenti, ma al contempo terribilmente accattivanti.
Passando all’aspetto musicale, basta spingere play per capire, a grandi linee, ciò a cui si andrà incontro: ‘The Arcturian Sign‘, che ha anticipato l’uscita del disco, incorpora infatti al suo interno molti degli aspetti che caratterizzano l’opera nel suo intero. La canzone rappresenta bene o male un ideale punto di incontro tra gli Arcturus del penultimo ‘Sideshow Symphonies’ e quelli dei bei tempi andati: se nei passaggi più tirati, infatti, non si fa faticare a ritrovare similitudini con brani quali ‘Hibernation Sickness Complete‘ e ‘Shipwrecked Frontier Piooner‘, in quelli più ‘atmosferici’ riemergono prepotenti i richiami a ‘The Sham Mirrors’. Vortex appare in ottima forma, sfoderando una prova di primissimo livello, sia dal punto di vista tecnico che da quello emozionale. Nonostante possa emergere, leggendo queste nostre parole, la paura di essere di fronte a una traccia paracula (ci si perdoni l’intercalare poco elegante), questa ‘The Arcturian Sign’ funziona indubbiamente bene e ben predispone l’ascoltatore.
Andando avanti con l’ascolto, risulta semplice scovare i brani do maggior carattere: ecco che spuntano quindi canzoni come la corrosiva ‘Angst‘, splendida nel suo incedere violento (impossibile non trovare punti di incontro con la celeberrima ‘Radical Cut‘), o ancora la seguente ‘Warp‘, episodio in cui torna a far capolino la voglia di sperimentazione più pura. L’elettronica diventa in questo caso la base sulla quale forgiare l’intero pezzo; le tastiere sono il vero fulcro del brano, assieme al drumming estremamente variegato ed esaltante di un Hellhammer che sembra non voler smettere mai di stupire. Sulla stessa riga si muove anche ‘Demon‘, che strizza fortemente l’occhio al trip-hop più spinto. Figlia putativa del mai troppo lodato ‘Vilosophe‘ dei conterranei Manes, la traccia in questione presenta alcune novità anche per quanto riguarda i filtri vocali, che la rendono di gran lunga la migliore del lotto.
Splendida anche ‘The Journey‘, episodio insolitamente tranquillo per gli standard arcturusiani: ancora una volta l’elettronica diventa il punto di partenza sul quale poi costruire quello che, forse, è il brano più avantgarde dell’intero album.
E i restanti pezzi? I restanti pezzi si mantengono su standard qualitativi ben più che dignitosi, regalando più di qualche sussulto, pur assestandosi qualche gradino più in basso rispetto a quelli citati in precedenza. Sia chiaro, anche in questo caso è difficile parlare di riempitivi, giacché ogni canzone presenta un songwriting solido, sostenuto da un’esecuzione strumentale priva di qualsivoglia sbavatura.
Assolutamente nulla da recriminare per quel che riguarda la qualità dei suoni, freddi sì, ma mai ‘posticci’ o plasticosi: ancora una volta la Prophecy deve essersi adoperata molto per poter fornire ai Nostri tutti i mezzi possibili al fine di rendere ancor più appetibile l’opera.
Insomma, lo avrete capito, ‘Arcturian‘ è senza ombra di dubbio un lavoro solido, figlio di un gruppo ormai ben rodato e pienamente cosciente delle proprie capacità e possibilità. I pezzi funzionano, appassionano, talvolta esaltano e molto raramente annoiano. Ma ‘Arcturian’ è veramente il disco della rinascita tanto attesa? No. O almeno, nonostante sia di gran lunga migliore rispetto al suo predecessore, è ancora piuttosto distante dalle vette toccate con i primi tre dischi dagli Arcturus. Questo perché, nonostante tutto, nonostante le belle canzoni, nonostante l’esecuzione perfetta, questo disco pecca un poco in mestiere. Per carità, un gran mestiere (e sì, questo rimane comunque un gran disco), ma forse qua e là poco spontaneo, quasi freddo, compiaciuto. Tanto per fare un paragone, laddove ‘A umbra omega‘ dei conterranei Dødheimsgard ha rappresentato l’essenza più pura del concetto di avantgarde, ossia la voglia di sperimentare senza porsi un vero limite, ‘Arcturian’, citando le parole di Knut, è un disco fatto per ‘unire il vecchio sound degli Arcturus al nuovo materiale‘, quasi a voler accontentare più i fan che il proprio ego di artisti.
Emanuele Calderone